Il 16 luglio 2017 alle 00.30, la Corte d’Assise d’Appello, dopo una camera di consiglio infinita (ben 15 ore), ha confermato l’ergastolo a Massimo Bossetti, muratore incensurato di 44 anni ritenuto responsabile dell’omicidio di Yara Gambirasio, avvenuto tra novembre e febbraio del 2011. A lui si arrivò grazie alla sovrapponibilità del suo DNA con quello di “ignoto 1” ritrovato sugli indumenti della povera ragazza, il cui corpo venne abbandonato in un campo a Chignolo d’Isola, nel bergamasco. L’indagine, una tra le più complesse e dispendiose dal punto di vista delle risorse sia umane che finanziarie, sembra però vagare ancora nel dubbio e nell’ipotetico: da sottolineare il fatto che all’interno della camera di consiglio, composta da otto giudici, due togati e sei popolari, si sia creata una spaccatura. L’indecisione tra i giudici avrebbe riguardato la carta numero uno messa in campo dai legali di Bossetti: la superperizia sul DNA. La difesa contestò la prova genetica per la mancanza di DNA mitocondriale nel campione esaminato, che normalmente sarebbe sempre associato a quello nucleare. L’assenza del DNA mitocondriale «non inficia in alcun modo la valenza del nucleare, l’unico che identifica in maniera certa una persona». Il profilo genetico – «grottesco pensare sia un DNA sintetico messo lì apposta» – è la prova non solo che l’imputato e la vittima sono entrati in contatto ma che lui, attratto dalle 13enni, è l’autore dell’omicidio. Così si è pronunciata l’accusa. Per i difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini una traccia così pura «non può resistere più di poche settimane», ma soprattutto quel DNA «non è il suo, non c’è stato nessun match, ha talmente tante criticità (261 ) che sono più i suoi difetti che i suoi marcatori», dicono ricordando di non aver mai avuto accesso ai reperti. «L’assenza di mitocondriale in quella traccia, che non ha le caratteristiche di una prova scientifica, va risolta concedendo una perizia, non chiedendo un atto di fede». Il problema per procedere però ad una nuova perizia sul DNA riguarderebbe l’esigua quantità della traccia mista trovata sugli slip della ragazza, che renderebbe difficile, se non impossibile, la ripetizione del confronto col sangue del muratore. Oltre alla prova del DNA c’erano stati una serie di indizi che avevano fatto da corollario: il suo furgone nelle immagini delle telecamere vicine alla palestra di Brembate di Sopra da cui Yara, che praticava ginnastica ritmica, scomparve il 26 novembre 2010; le fibre trovate sul corpo della ragazza, compatibili con quelle dei sedili del Fiat Daily del muratore. Anche qui le posizioni si rivelarono contrastanti e divergenti: secondo la difesa gli orari delle telecamere di sorveglianza erano diversi tra loro e, per di più, era impossibile affermare con certezza che quello ripreso fosse veramente il furgone di Bossetti, a causa del buio e della scarsa qualità delle immagini. Tanti insomma gli elementi che hanno destato e che destano ancora incertezza ed irresolutezza. Sebbene il tribunale abbia deciso per la conferma dell’ergastolo il caso non può ancora definirsi chiuso: “abbiamo assistito alla sconfitta del diritto, il ricorso in Cassazione è scontato” è il commento a caldo dell’avvocato Claudio Salvagni. “Questo processo per noi resta pieno di anomalie e di cose che non tornano”, hanno detto i legali della difesa. Bossetti, che ha ascoltato la lettura della sentenza in piedi, non appena il presidente della Corte Enrico Fischetti ha finito di pronunciarsi, ha abbandonato l’aula ed è scoppiato in lacrime assieme alla moglie. Per l’accusa invece non ci sono scuse: di segno totalmente opposto infatti la dichiarazione di Enrico Pelillo, avvocato della famiglia Gambirasio: “giustizia è fatta, le carte processuali dicono che la sentenza andava confermata”. Per quanta chiarezza possa essere stata fatta, rimane piuttosto difficile assumere una posizione certa. Quel che è strano è il fatto di non predisporre la conferma di ciò di cui si è assolutamente certi. Perchè non portare una prova ulteriore e definitiva di modo da porre fino ad ogni minimo dubbio? La complessità delle indagini ha forse portato ad un esaurimento su più lati e ad un vicolo sempre più cieco che hanno fatto si che la condanna fosse inflitta nonostante le prove esigue e strampalate? Certo, il desiderio e la voglia di assicurare alla giustizia l’autore di questo brutale delitto si sono fatti giustamente sentire, ma non per questo devono oltremodo scavalcare quella che è la realtà dei fatti. Sebbene la quantità di traccia mista ritrovata sugli slip della ragazza sia relativamente poca e forse inutilizzabile si sarebbe potuto tentare di ripetere il test, forse più per una legge morale che civile. A prescindere dalla fiducia riposta nelle istituzioni e nelle forze dell’ordine, è una vicenda quella della povera Yara che ha del macabro e del misterioso e, nonostante quanto si sia fatto da una parte e dall’altra per arrivare ad una risposta certa, si continua ancora a navigare nel nulla. Nulla che però è stato in qualche modo colmato “a comando”. E se forse dietro tutto ciò si profilasse la figura di qualche potente o qualche organizzazione su scala nazionale? Chissà, difficile dirlo con certezza, ma estremamente facile pensarlo.