È il 17 febbraio 1963. Nella fredda Brooklyn, New York, il poco più che ventisettenne James Jordan è in ansia: nella stanza accanto sua moglie Deloris sta dando alla luce il piccolo Michael, suo secondogenito. In quella fredda giornata di metà inverno di 58 anni fa ha inizio la storia del miglior giocatore di basket di tutti i tempi, “his airness”, Michael Jeffrey Jordan.
Subito dopo la sua nascita Michael si trasferisce con la famiglia in North Carolina, a Wilmington dove inizia a giocare a baseball, la passione del padre. Decide però di abbandonare questo sport in favore del basket, che veniva già praticato da suo fratello. Saranno proprio le sfide nel campetto dietro casa con il fratello a dare vita alla sua grande competitività e “cattiveria agonistica”, oltre alla sua capacità di porsi sempre oltre i propri limiti, fino al superamento di essi.
Continua a giocare anche nelle scuole superiori dove si dimostra sempre più bravo, ma Michael non ci crede al punto da scegliere come numero sulla maglia il 23 perché suo fratello aveva il 45 e lui pensava di essere la metà di lui a livello di bravura cestistica!
È così bravo che riceve chiamate da Università di tutta l’America. Decide di andare in quella del North Carolina, dove concluderà il suo percorso con ben 2 titoli NCAA (il campionato cestistico americano universitario) vinti.
È sicuramente uno dei migliori prospetti per il draft Nba del 1984, uno di quei giocatori su cui puntare per ricostruire su di esso una squadra, o addirittura una franchigia… Viene selezionato con la terza scelta assoluta dai Chicago Bulls, una squadra totalmente in rotta, che aveva un disperato bisogno di un giocatore su cui puntare per risollevarsi dalle zone di bassa classifica dove ormai da troppo navigava.
Nello stesso anno inizia anche la celeberrima collaborazione con il marchio Nike, che al tempo fatturava poco più di 25 milioni l’anno ed era in cerca di giovani testimonial. Nasce così la linea Air Jordan che tutt’oggi è una delle più famose linee di abbigliamento sportivo. E pensare che inizialmente Michael voleva come sponsor Adidas, “l’acerrimo rivale” di Nike!
Nella prima stagione i Chicago Bulls con Jordan centrano subito l’obbiettivo playoff, venendo però sconfitti 3-1 dai Milwaukee Bucks. Lo stesso anno Micheal riceve il premio di matricola dell’anno. Nella stagione 1985/86 Jordan gioca solo le ultime 18 partite a causa di un infortunio: degna di nota però la prestazione da 63 punti contro i Celtics di Larry Bird, al termine della quale lo sesso Bird dirà: “Quello era Dio travestito da Micahel Jordan”.
Gli anni successivi, nonostante le medie pazzesche di Jordan (sempre oltre i 35 punti di media), i Bulls non riescono mai ad andare oltre il secondo turno di playoff. La squadra non girava, si affidava soltanto alle mani di Jordan. Così nel 1989 viene affidata a coach Phil Jackson. Il nuovo allenatore comprende che la squadra non può dipendere solo da Jordan; cerca dunque di coinvolgere maggiormente gli altri giocatori, capendo i loro punti di forza e sfruttandoli al meglio. Il risultato non può essere che positivo: i Bulls dopo un grande stagione si piegheranno solo in finale di conference contro i Detroit Pistons, campioni in carica. Nonostante questa sconfitta, la squadra ha una nuova consapevolezza, sa di essere forte e sa di poter vincere. Infatti dopo un’altra grande annata, riescono a sconfiggere i temuti Pistons con un netto 4-0. In finale poi battono i Los Angeles Lakers di Magic Johnson imponendosi per 4-1. Jordan ottiene così il suo primo anello. Ma una volta assaggiata la vittoria non può più farne a meno e Chicago infatti vince anche i due anni successivi, compiendo così l’impresa del three peat, cioè la vittoria di tre campionati consecutivi, impresa che pochissime squadre possono vantare di aver portato a termine.
Nell’estate dell’anno del terzo anello (1993) però avviene un fatto che avrebbe scosso per sempre la vita di Michael: il 23 luglio 1993 il padre, James Jordan, viene assassinato da due malviventi in cerca di denaro. Il corpo viene ritrovato soltanto giorni dopo. La morte del padre è un trauma fortissimo nella vita di Michael, al punto che decide di abbandonare il basket per tornare a giocare a baseball, lo sport amato da suo padre.
Annuncia quindi il suo ritiro ufficiale: vuole che l’ultima partita vista dal padre sia anche la sua ultima giocata.
Ma il richiamo del pallone a spicchi è troppo forte e il 18 marzo 1995 viene diramato un comunicato che annuncia il suo ritorno con due semplici parole: “I’m back”!
Tornerà a giocare prima con la 45 ma poi riprenderà l’iconica 23.
La stagione 1994/5 termina con un nulla di fatto per i Bulls. Nonostante questo scivolone, tutti sanno già come sarebbe andata l’annata successiva. Infatti Chicago raggiunge facilmente le Nba Finals dove sconfiggono i Seattle Supersonics di Gary Payton in sei gare.
Gara 6 peraltro viene giocata il giorno della festa del papà e sono particolarmente iconiche ed emozionanti le immagini di Jordan dopo la partita in lacrime a terra con il trofeo stretto fra le braccia, come se fra quelle braccia al posto del trofeo tenesse il suo sfortunato padre.
L’anno successivo Chicago vince ancora una volta l’anello, sconfiggendo questa volta gli Utah Jazz del “muto” John Stockton e del roccioso Karl Malone, una delle migliori coppie che l’Nba abbia mai visto. Sicuramente degna di nota gara 5 di quelle serie di finale, il cosiddetto “flu game“, dove Jordan, nonostante sia febbricitante e pesantemente indebolito a causa di un’intossicazione alimentare, vince la partita mettendo a referto 38 punti fra cui la tripla decisiva.
L’anno successivo i Bulls ottengono ancora una volta il titolo, il sesto sia per loro che per Jordan, ancora una volta contro gli Utah Jazz, vincendo così il secondo three peat e portando a compimento un’impresa mai vista nella storia dell’Nba. Inoltre per la sesta volta Jordan ottiene l’mvp delle Finals.
A questo punto Jordan si ritira una seconda volta ma torna successivamente a giocare agli Washington Wizards, mentre nello stesso tempo ne è anche presidente. Si ritira definitivamente al termine della stagione 2002-2003.
Nel 2009 entra a far parte della Hall Of Fame, congedandosi con questa frase: “I limiti, come le paure, spesso sono soltanto un’illusione”. Una frase che racchiude perfettamente Michael Jeffrey Jordan, il miglior giocatore di basket di tutti i tempi.