Il Black Friday è un rituale che va avanti circa dalla metà del 1900 ma mai come quest’anno ha rappresentato un’occasione d’oro per i siti di shopping online, Amazon in testa con un ricavato di oltre 9 miliardi di dollari questo venerdì nero, secondo i dati riportati da Cnbc.

Già negli anni scorsi erano sorte delle polemiche sui guadagni immensi di vari e-commerce, in quanto nella eterna sfida tra convenienza e sostenibilità i consumatori vengono sempre più attratti dalla prima.

Se in questi anni molte aziende stanno facendo passi avanti, vengono rivolte molte critiche ad Amazon, quasi riguardanti ogni aspetto della sostenibilità ambientale ed economica.

Se viene “scusato” l’immenso impatto ambientale (ironica la costruzione dello stabilimento all’avanguardia green di Passo Corese spianando una collina di uliveti e un centro archeologico), non è accettabile che nel corso degli anni emergano sempre più problemi riguardanti le condizioni dei lavoratori.

Proprio questo 27 novembre la Cgil ha organizzato il suo Red Friday online per parlare dei diritti dei lavoratori di Amazon, oltre a proteste, scioperi e mobilitazioni in molte sedi italiane.

Dalle varie interviste a lavoratori delle warehouse sono emerse scene agghiaccianti riguardanti le condizioni di lavoro, a partire dallo stile “militare” dell’impostazione della giornata.

La regola numero uno è quella di rispettare i tempi e le quantità previste: se un addetto alla selezione degli ordini non rispetta la quota prevista per la giornata (pare che possa essere anche dai 700 ai 1800 pacchi l’ora) viene immediatamente segnalato dai sistemi di monitoraggio, anche in caso di incidente, malessere o malfunzionamento delle macchine oppure anche solo se si attarda troppo in bagno, considerando che in certi casi ci vogliono quasi 15 minuti solo per raggiungerlo attraversando tutto lo stabilimento.

Le segnalazioni si accumulano e non accettano giustificazioni, dopo un certo numero si diventa candidati al licenziamento, che non è certo un fatto raro dalle testimonianze raccolte.

Ci sono turni di mattina, di pomeriggio e di notte, fino alle 9-10 ore lavorative. I minuti di ritardo vengono detratti dalla busta paga. Ci sono storie di dipendenti richiamate perché andavano in bagno troppe volte durante le mestruazioni, oppure molti non approfittano della pausa di mezz’ora per non esporsi a rischi di ritardi, senza contare le immancabili situazioni di contratti non confermati all’ultimo, mancate conferme ed eterne situazioni di precarietà.

Per quanto riguarda gli infortuni sono numerosi, in America si tratta di un numero tre volte sopra la media rispetto ad altre warehouse, giustificati da Amazon con il fatto che la sicurezza sul lavoro sia la loro priorità e che quindi a differenza di altre aziende non farebbero i furbetti abbassando il numero.

Anche in Italia si registrano molti incidenti, cosa che di per sé sarebbe in parte comprensibile avendo a che fare con un lavoro fisico mediamente intenso o maneggiando pacchi di grandi dimensioni, ma è aggravata dal fatto che, oltre a essere sottoposti a molta pressione e ritmi frenetici, ogni ritardo è responsabilità del singolo lavoratore e le tutele sono scarse.

Alcuni riescono a gestire la continua freneticità e la rivalità per accaparrarsi l’assunzione, altri no e abbandonano. Lo stipendio varia molto a seconda dell’incarico ma per alcuni non è sufficiente per ripagare lo stress e i problemi fisici a lungo termine.

Come se non bastasse molti hanno protestato per l’alto numero di contagi da Covid-19 negli stabilimenti, accusando Amazon di non considerare seriamente la sicurezza dei suoi dipendenti.

Proprio per protestare contro le condizioni di lavoro e i privilegi fiscali della società (secondo Repubblica in Italia le società di diritto riconducibili ad Amazon hanno pagato allo stato soltanto 11 milioni di euro di imposte, a fronte di un giro d’affari che nel nostro paese ammonta a 4,5 miliardi di dollari) 401 politici e personalità delle istituzioni di 34 paesi hanno firmato una lettera aperta indirizzata a Jeff Bezos sotto la sigla di “Make Amazon pay”. Le richieste sono più correttezza sulle tassazioni, maggior impegno per l’ambiente e un miglioramento delle condizioni dei lavoratori a partire dall’aumento dei salari minimi, più sicurezza sul lavoro e maggiori diritti, garanzie sindacali e un miglioramento delle politiche di assunzione.

Sappiamo che la convenienza e la comodità di acquistare online è innegabile, soprattutto in tempi di pandemia, ma sappiamo anche che Amazon può sostenere questi costi e che c’è bisogno di più impegno e allerta per questi temi che ci riguardano ogni volta che facciamo un acquisto.

Anche i consumatori hanno la responsabilità di informarsi e forse grazie alla collaborazione di tutti un giorno realizzeremo un futuro più giusto e sostenibile.

Fonti e approfondimenti:

https://www.theguardian.com/technology/2020/feb/05/amazon-workers-protest-unsafe-grueling-conditions-warehouse

https://www.internazionale.it/reportage/angelo-mastrandrea/2019/03/18/lavoratori-amazon-passo-corese

https://www.youtube.com/watch?v=UbILAnpt2fA

https://makeamazonpay.com/

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