In un periodo così straordinario e difficile come quello che stiamo vivendo è fondamentale non dimenticare di celebrare eventi come quello del Dantedì, che al di là del punto fondamentale della memoria e della cultura, ci riportano anche ad altri valori fin troppo spesso dimenticati, come quello dell’unità del Paese, orgoglio e riscoperta delle proprie identità.

In occasione, abbiamo avuto la possibilità di intervistare telefonicamente (considerata la situazione) il professore di storia medioevale nonché sicuramente uno dei più prestigiosi medievisti viventi Franco Cardini, che da profondo conoscitore ed esperto dantista, ci ha onorato rispondendo ad alcune nostre domande in merito a questa giornata così importante.

Professore, secondo lei quale può essere, da un punto di vista culturale, il senso di un “Dante Day”?

E’ una giornata molto importante, viviamo in una società pluralistica, caratterizzata da un tono generale della cultura che si sta abbassando e omologando continuamente e che non ha più appigli culturali che siano condivisibili e conoscibili. Un servizio della ex televisione di stato che adesso è la TV ordinaria parlava di un 63% di italiani che non conoscono o che non sanno abbastanza su Dante (dove l’abbastanza in generale, si identifica nella conoscenza di: nome, cognome, luogo di nascita e all’incirca il periodo in cui è vissuto).

Parliamo quindi di una società che oramai sta perdendo memoria e caratteri culturali condivisi, una società che praticamente si sta civicamente e socialmente destrutturando, il che “va bene” perché va nella direzione voluta da quella che definiamo “Post modernità”. Per post modernità si intende un mondo retto da poche centrali che pensano e che in generale sono quelle che si occupano fondamentalmente dell’andamento finanziario, tecnologico ed economico del mondo, dove il resto del mondo è ovviamente ridotto a diversi livelli. Quelli al livello di consumatori ci restano soltanto finché sono ad un stadio sociale ed economico che li rende interessanti, altrimenti vengono abbandonati a se stessi come si vede adesso nella gran parte dei continenti, l’Africa principalmente ma anche l’America Latina e buona parte dell’Asia.

In altri termini siamo in una situazione di oligarchia molto ristretta, si parla di 200-300 lobbies, famiglie e personaggi privati che gestiscono il pianeta quando il resto viene naturalmente abbandonato a se stesso. Ciò è del tutto normale perché è quello che vediamo costantemente succedere sotto i nostri occhi. E’ quello che in greco si definisce “oclocrazia”, un termine bizantino usato da uno storico della decadenza del 1400, Niceforo Gregoras; il quale con questo termine definisce il governo della parte peggiore del popolo.  

“Dante rappresenta molte cose di cui oggi abbiamo bisogno. E’ l’unità del Paese, e orgoglio e riscoperta delle identità”. Lei è d’accordo con questa affermazione del ministro Dario Franceschini?

Sì certamente. Se Dario Franceschini avesse affermato che “quando piove ci si bagna” avrebbe fatto un’affermazione alla quale sarei perfettamente d’accordo, questa sua osservazione appartiene alla serie delle affermazioni perentorie, giustamente, perché corrispondono ad una realtà indiscutibilmente oggettiva, alle quali appartiene appunto anche la frase “quando piove ci si bagna”.

Lei come si immagina “L’uomo” Dante? Ci sarebbe andato d’accordo?

Ho sempre sostenuto di avere un buon carattere e di essere una persona che in generale tenta di capire gli altri e che non sia arrabbia mai, per questo motivo penso che ci sarei andato abbastanza d’accordo, ma del tutto per merito mio. Chi dice di conoscermi meglio invece, cioè i non molti amici stretti che ho ed i miei famigliari, assicurano che io, al contrario delle apparenze e della prima impressione che posso dare, sono invece una persona impossibile, spigolosa, superba e incurante degli altri, che legge soltanto al libro delle proprie cognizioni e che è chiusa a qualunque forma di dialogo. Se avessero ragione loro beh, allora con Dante ci avrei fatto sicuramente scintille e non saremmo probabilmente nemmeno potuti essere dalla stessa parte politica a causa del mio carattere, Dante infatti è rimasto sempre troppo guelfo anche nell’ultimo momento.

Tutta l’opera di Dante la si può definire una ricerca del Divino, di un contatto con Lui. Secondo lei questo può avere ancora senso in una società quasi del tutto secolarizzata come la nostra?

Come vanno a finire le società secolarizzate io non lo so e non lo posso sapere perché faccio il mestiere del ricercatore di storia e nella storia non si è mai verificata una situazione come l’attuale.  Una situazione di destrutturazione generale, caratterizzata dalla perdita del senso del Sacro, del Divino e dall’omologazione degli esseri umani sulla base dei puri caratteri economici, finanziari e tecnologici. Tutto questo non si è mai verificato nel mondo prima per quanto ne sappiamo noi.

Ci sono state delle civiltà scomparse che non ci hanno lasciato tutte le tracce e che ci spiegano perché lo hanno fatto, ma in linea di massima non sembra che siano scomparse per un motivo come quello per cui rischia di scomparire la società attuale.

Bisognerà quindi vedere fino a che punto il processo di ristrutturazione della società potrà arrivare; ristrutturazione che è cominciata quando la società occidentale ha scoperto la dimensione di assolutezza dell’individuo, quando ha scoperto che l’universo non ha uno scopo perché il cielo è vuoto e che la vita non ha uno senso, perché è tutto un fenomeno biologico che ad un certo punto ha una fine.

Quindi l’unico scopo dell’uomo diventa e consiste nell’arricchirsi e nel signoreggiare sugli altri e naturalmente a proprio vantaggio, quello che Nietzche ha chiamato la volontà di potenza. Quando si arriva a questi livelli è difficile capire verso che tipo di esito si stia andando perché non ci siamo mai incamminati prima d’ora in un cammino di questo genere sul piano storico, per questo il nuovo è tutto sempre molto interessante. Vedremo se non cambieremo rotta, a che cosa potremo arrivare, ma sarà senza dubbio è un argomento notevole e degno assolutamente di attenzione.

Filippo Tommaso Marinetti definiva la Divina Commedia “un verminaio di glossatori”. In effetti, su di lui è stato detto tutto e il contrario di tutto, dal “bisturi” di Benedetto Croce ai… fantadantisti. Secondo lei qual è il modo più corretto, per uno studioso, di avvicinarsi al poeta?

Marinetti non pensava nulla di Dante, pensava soltanto e semplicemente all’effetto che avrebbero avuto le sue dichiarazioni. Era un uomo senza dubbio della comunicazione moderna, diceva qualunque cosa con il solo obbiettivo che questa cosa avesse un successo. Mi sembra quindi sia irrilevante preoccuparsi di cosa Marinetti pensasse davvero di Dante.

Dante di per sé l’aveva capito già nel suo contesto, che è l’Europa occidentale nello snodo fra 200 e 300, agli albori della modernità che c’era una forte avanzata dell’elemento economico. Un’avanzata che sta superando tutti gli altri elementi, per esempio quello religioso, quello artistico e anche quello continuo nel senso della produzione di quanto serve agli esseri umani per sopravvivere e per sviluppare i propri connotati culturali.

Dante è un uomo che ritiene di essere, come gran parte delle persone del suo tempo, di quello prima e anche di quello dopo, alla fine dei tempi. Sta cercando di fare i conti con il mondo, con l’umanità e con il rapporto fra l’umanità e Dio e per questo sceglie il suo laboratorio a Firenze. Alla Rai hanno fatto vedere una puntata di “Noi e la Storia” dedicata a Dante, nella quale hanno fatto parlare una delle studiose più intelligenti e più brillanti che abbiamo mai avuto in Italia: Chiara Mercuri, la quale non avendola voluta l’università ha avuto l’intelligenza di andare a insegnare alla scuola media e fra l’altro inferiore; nonostante ciò viene invitata alle 23 della sera a fare una lezione su Dante e sull’esilio. Questo fatto è una delle cose più belle e più formidabili che io abbia mai sentito in vita mia.

Lei diceva proprio questo: “l’essenziale di Dante, il suo legame con Firenze, il rapporto con il luogo grazie al quale Firenze è diventata cristiana e considerata la porta del Paradiso. Il suo rapporto in particolare è con l’edificio del battistero di San Giovanni”, questo significa aver capito veramente le cose per me. Se non si capisce questo, è inutile leggere la Divina Commedia o qualunque altra opera di Dante. Perché questo è il punto fondamentale.

Dante si pone il problema del rapporto fra il suo tempo, il destino dell’umanità e l’eternità; sa il consuntivo di quello che lui può fare come cittadino fiorentino, come cittadino della parte guelfa della fazione bianca e come uomo che come dice lui si è sempre comportato bene (anche se su questo ho qualche dubbio). In seguito a questo suo comportarsi bene infatti lui avrebbe ha avuto tutte le disgrazie del mondo e se ne lamenta, e questo per la verità, è un atteggiamento comune a tutti i falliti.

Al contrario tutti quelli che non sono falliti, siccome hanno vinto la loro battaglia con il mondo a vari livelli, sostengono invece che il mondo è bellissimo e va bene così. Dante è un fallito, ma non lo sarà più dopo una trentina d’anni, quando i figli raccoglieranno le sue opere, cominceranno a farle copiare, a divulgarle e troveranno dei megafoni per Dante. I signori ghibellini dell’Italia del centro-nord sosterranno solo poi che lui aveva visto giusto perché c’era bisogno che tornasse l’autorità imperiale ed i figli di Dante, che avevano un contezioso che non finiva mai con il Comune di Firenze, volevano essere rimborsati.

Dante muore non considerato più nella casa di un signore ravennate che gli dà un piatto di minestra e un tetto; un tiranno, uno che esercitava un potere assoluto, ma che Dante riteneva comunque, con ragione, essere sempre meno corrotto dei regimi che a suo tempo erano considerati regimi di libertà. Muore così ignorato da tutti, mandando ogni tanto qualche canto della Divina Commedia ad alcuni suoi amici o conoscenti.

Un uomo del tutto vinto dal periodo storico nel quale è vissuto, di questo spesso non ci rendiamo conto e continuiamo a pensare di Dante come se fosse sempre stato Dante anche nel 1300-1320. Era un disgraziato, un emarginato, un uomo che tutti si erano del tutto dimenticati salvo il comune di Firenze che comunque lo voleva tenere alla larga. Lui affetto da manie di grandezza pensava addirittura che gli spettasse di essere incoronato poeta nel battistero di Firenze, che è una delle porte del Paradiso, ma questa è proprio un’altra realtà che bisogna sempre tener conto quando si parla di Dante e quando lo si pensa. Il fatto che non ne parli mai nessuno, è la radice del fatto che Dante è ancora oggi un incompreso. Ma cosa ci si può aspettare da gente che oggi definisce grande perfino “quell’avanzo di galera di Churchill

Serie tv sulla Divina Commedia: Freeform al lavoro su Dante's Inferno

C’è un canto, un personaggio, un episodio della Commedia che lei ama particolarmente? Per quale motivo?

Ci sarebbero tanti personaggi che mi piacciono perché ritengo li abbia centrati perfettamente oppure perché lasciano un importante messaggio filosofico o esistenziale importante. Ma se dovessi rispondere a colpo sicuro, eliminandone altri molto belli che mi vengono alla mente come Farinata degli Uberti o l’imperatore Traiano direi senz’altro Ulisse, che è una perfetta rappresentazione del destino dell’uomo e in prospettiva anche del destino dell’uomo occidentale, anche se quest’ultimo, sviluppandosi in quella direzione ha rovinato il mondo.

Ulisse da vecchio si riunisce con i suoi uomini e con loro decide di partire, lo fa per desiderio di conoscere, lo fa perché la conoscenza è uno degli scopi fondamentali dell’uomo perché bisogna sempre conoscere più cose possibile e perché non si finisce mai di conoscere. Questo anche se lui sa benissimo che la conoscenza porta al dolore perché è un pozzo senza fondo, più si sanno le cose, più si capisce che il perimetro che ci divide dalle cose che non sappiamo si allarga sempre di più, e quindi più si scopre le cose che non sappiamo e sempre più grandi diventano di quanto già noi non credessimo. Per tutto questo vale però per lui la pena di sacrificarsi fino all’ultimo momento della propria esistenza, che si rivela un altro fallimento. Ulisse non arriva da nessuna parte, naufraga, muore in mare e questo è il destino dell’uomo; infatti lui lo perde in una direzione che è rischiarata da una metafisica avversa che ci dice che l’uomo non è immortale.

Oggi noi questa chiave di lettura l’abbiamo perduta, per cui tutto quello che ultimamente ci resta è la disperazione davanti a una fine. Il Dr. Freud aveva capito tutto, l’elemento disperante e destrutturante della nostra società sta nel nostro nichilismo di fondo, nel nostro essere intimamente convinti e quindi incapaci di parlare della morte, non facendola nemmeno vedere.

Come in questo periodo; tutti sono stati sconvolti dall’idea delle bare portate via dall’ospedale di Bergamo o dall’esercito perché non ci si pensava a una cosa di questo genere. Si è creduto ad esorcizzare la morte non parlandone, la quale si vendica e ritorna come spirito selvaggio, terrorizzando. Nessuno osa parlare di queste cose perché turberebbero le nostre sicurezze che sono il progresso, la scienza, la tecnica e la libertà. 

Fine intervista

Parole davvero di grande interesse e impatto quelle di Franco Cardini, che fanno riflettere su quanto concetti e temi considerati dai più, parte di un lontano passato come l’epoca ed il contesto storico di Dante, possano essere ancora estremamente attuali ed utili per una comprensione più profonda della nostra società moderna, protesa sempre di più verso una sclerotizzazione culturale in funzione esclusiva del progresso scientifico ed economico. Dante, che già si era accorto quasi da veggente di questa direzione presa dalla nostra società, ci ricorda di non perdere quello che è uno dei valori fondamentali della nostra essenza umana, forse quello più profondo ed intrinseco: la nostra spiritualità, che non deve per forza essere associata ad un fattore religioso quanto più ad uno empatico ed umano; in particolare in una situazione di difficoltà come quella che stiamo vivendo oggi, ai tempi del Covid-19.

Cardini è riuscito anche in questa intervista a farci conoscere un altro aspetto davvero interessante: l’altra faccia della medaglia del poeta Dante, quella più fragile e umana, che senza screditare o togliere nulla al magno poeta ne mostra anche i suoi fallimenti sia politici che personali. Aspetti fondamentali per la comprensione più completa di una fetta fondamentale della cultura italiana, o meglio in questo caso, umana che non possiamo permetterci di perdere. Questo Dantedì riporta a galla proprio questo, perché fa parte di noi e perché dovrà continuare a far parte delle generazioni future che dovranno continuare ad essere orgogliose di essere italiane, ma ancor prima umane.

Un ministero dell'umanità - Possibile
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