Molte sono le volte in cui si vorrebbe essere indifferenti ai piaceri, in cui si vorrebbe non essersi affezionati a qualcuno, in cui si desidererebbe che quella cosa non ci fosse piaciuta così tanto… perché poi ci ha fatto soffrire o ci ha delusi. Ma davvero qualcuno vorrebbe smettere di provare gioia?
Una vita senza i brividi lungo la schiena ascoltando la tua canzone preferita sotto le stelle? Senza esultare perché arrivato primo sul podio dopo un anno di sacrifici? Priva di divertimento e risate con gli amici?
Difficile pensare che qualcuno la sceglierebbe volontariamente.
Purtroppo però esiste l’anedonia. È una patologia che riguarda quelle persone che a un certo punto della loro vita smettono di provare interesse per ciò che finora li aveva appagati.
Il termine “anedonia” venne coniato per la prima volta
dallo psicologo francese Théodule-Armand
Ribot (1839-1916) nel 1897 e le diede la seguente definizione: “incapacità patologica di percepire piacere in ogni sua
forma”.
Nel
1994, dopo vari studi, venne introdotta nel DSM-IV (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) come
sintomo nucleare della depressione
maggiore, della “melancholia”, e
come sintomo negativo della schizofrenia.
Inoltre dalle stime risulta che il 40% dei pazienti affetti da Morbo di Parkinson manifestino al tempo stesso anedonia.
Chi soffre di tale disturbo è incapace di trarre piacere da attività sessuali, alimentari, relazionali ed affettive; può comprendere anche il disinteresse verso dormire, rilassarsi e vivere.
È solitamente differenziata in:
–sociale, quando sono le relazioni interpersonali a perdere di importanza;
–fisica, quando diventano indifferenti cibo, sesso ed emozioni.
Questa la testimonianza di un paziente con anedonia:
“Essenzialmente, non ottengo nulla dalla mia vita quotidiana; il mio mondo è freddo e, come tale, fa sembrare la vita allo stesso modo. Tutto ciò che guardo, tutto ciò che faccio, sembra e mi trasmette lo stesso. “
Facile intuire come in molti casi induca al suicidio.
Negli ultimi anni l’anedonia ha ricevuto una maggiore attenzione da parte degli psicologi, principalmente per capire al meglio come i pazienti “depressi” possano reagire ai vari trattamenti.
È stata infatti riscontrata una minor efficienza da parte dei comuni antidepressivi verso coloro che sono soggetti a depressione con anedonia, rispetto a chi è depresso ma senza anedonia.
Al momento le ipotesi sono che la gravità dell’anedonia sia dovuta ad un deficit di attività dello striato ventrale e ad un eccesso di quella della regione ventrale della corteccia prefrontale.
Per diagnosticarla sono molto utilizzati gli auto-questionari.
Questo è un esempio di uno dei più noti, l’SHPS (Snaith-Hamilton Pleasure Scale).
A ciascuna frase il paziente dovrà associare un valore che rispecchierà le sue abitudini, i suoi sentimenti. A seconda del punteggio totale, verrà diagnosticata o meno la patologia.
Per quanto riguarda la cura, essendo un disturbo mentale, è pressoché similare a quella per la depressione e per i disturbi di natura psicologica: sono previste sedute psichiatriche, il dialogo e, quando necessario, il supporto farmacologico.
Lo specialista però deve prestare molta attenzione a ciascun paziente: l’anedonia non è una patologia a sé stante, bensì affianca molti disturbi della personalità, peggiorandoli; quindi il medico deve capire quale sia l’origine di tutto per poterlo curare al meglio.