È stato rappresentato lo scorso 4 settembre presso il Teatro della Pergola di Firenze Canto degli esclusi. Concertato a due per Alda Merini a cura di e con Alessio Boni e Marcello Prayer, per l’inaugurazione del Festival delle Associazioni Culturali Fiorentine 2023, terza edizione appoggiata dalla manifestazione Estate Fiorentina e altri enti, come la Fondazione Teatro della Toscana.

Nel suo discorso introduttivo, Ida Antonia Fontana, presidente del Centro delle Associazioni Culturali Fiorentine APS che ha gestito il progetto, dichiara che questo evento è solo l’inizio: dall’uno al ventun settembre Firenze è in fermento per il Festival, che comprende 34 svariati appuntamenti grazie alla collaborazione di una cinquantina di associazioni, diverse per finalità e dimensioni; nell’insieme di concerti, mostre, spettacoli, conferenze e visite guidate in luoghi inconsueti (gratuito e diffuso in tutti i quartieri fiorentini), l’espressione chiave è “Insieme per sostenere la cultura”, specialmente di prossimità. Questo settore infatti ha risentito grandemente della pandemia, sorretto soprattutto dalla dedizione e competenza di volontari sul ring contro l’odierno egoismo strisciante.

Ciò viene organizzato per pensionati che vogliono passare il tempo? Benché sia nobile già questo, si ribadisce l’ambizione di coinvolgere anche giovani, ad esempio attraverso incontri su Pinocchio, tematiche di interesse comune come pace, didattica, in orari vicini alle loro esigenze: il fine di un’Associazione Culturale è del resto giovare all’intera cittadinanza promuovendo confronto e socialità perduti, un’ottimale sinergia tra innovazione e tradizione.

È allora coerente inaugurare la manifestazione con uno spettacolo di poesia, materialmente inutile, eppure l’azzurro immisurabile con la mente, secondo il letterato Blok, accessibile ma misteriosa.

È Marco Giorgetti, Direttore Generale della Fondazione Teatro della Toscana, ad ammonirci della rarità dell’occasione, in antitesi al logoro, superficiale spettacolo, che riempie le casse, ma svuota l’interiorità.

Tra curiosi, membri di associazioni, oltre cinquecento hanno prima assistito al concerto lirico Alla notte, guidati nel proprio intimo da Elisabetta Sepe, Direttore Artistico e pianista di riferimento de Il Foyer – Amici della lirica di Firenze, e Eleonora Bellocci, giovane e talentuosa soprano internazionalmente riconosciuta.

Queste hanno fuso linguaggi espressivi da Mozart, Bellini, Gershwin, a Copland e Tosti ispirati dalla poesia di Dickinson, Guerrini, D’Annunzio.

Un vero exploit! Vibrava in quelle note la potenza onirica, di scavo interiore che solo la notte può accordare.

Passiamo al gran finale, collegato per temi, espressività al concerto.

Buio, rumore del vento e canto della poetessa trascinano agli attori che proseguono, con la stessa intonazione trasognata, il racconto della Merini su violenza dell’indifferenza e gioia spregiudicata nell’Arte.

Di qui, un alternarsi fluido e sbrigliato di recitazione, tracce audio con interviste, chiacchierate informali e toccanti con la donna.

Desiderio di contatto con l’Altro, fisicità, prepotente quanto la spiritualità, emergono dalla variegata lettura, fino al cuore del messaggio.

Messaggio di speranza, fragilità, vitalità totalizzante, caotica, ma che dà senso a dignità e amore nonostante le difficoltà.

Nelle parole vibra l’indignata rivendicazione di libertà e felicità, a volte delirio frutto dell’inquietudine, bisogno di forza, di Dio, sgomento e lotta di fronte ad una disciplina ipocrita e imperante dello stare insieme, dell’ostentare forza ed efficienza.

Le immagini nelle poesie colpiscono per la loro potenza evocativa, immediata, istintiva.

La rappresentazione finisce con uno scroscio di applausi, i due attori che riportano l’intricata biografia della poetessa, alcuni suoi piacevoli, profondi aforismi.

I brani recitati trasudano l’umanità di chi, pur segnata dalla vita, non ha smesso di sorriderle, con ironia, amore dirompente e cristallino.

Ne tratteggiamo la vita, illuminata dalla poesia, disastrata da guerra e manicomio.

Alda Merini (Milano, 1931-2009), incompresa dai genitori di modeste origini, sin da piccola sente il richiamo di studio e poesia.

Il letterato Spagnoletti la fa esordire quindicenne e ne inserisce due poesie nell’Antologia della poesia italiana 1909-’49 (1950).

Sebbene esclusa dal mondo intellettuale, stringe amicizia col poeta Quasimodo, escono sue raccolte come La presenza di Orfeo (1953), Nozze Romane e Paura di Dio (1955).

Degli stessi anni è il matrimonio (d’amore e incomprensione) col panettiere Ettore Carniti, da cui nasceranno quattro figlie, affidate ad altri quasi appena partorite, in un agghiacciante avvicendarsi di internamenti in manicomio della madre.

Il primo risale al 1947, quando le fu diagnosticato il disturbo bipolare. Torna per circa dieci anni dal 1964, dopo due parti, la stanchezza di una madre che si sente inadatta e disprezzata: un periodo indelebile, anche nella produzione successiva, oscuro, ma rivelatore.

Allora nei manicomi finiva la civiltà, gli internati venivano placati, privati di dignità con efferata smentita di sentimenti e capacità.

Vedova, ricambiata, sposa nel 1984 il poeta Michele Pierri, poi viene nuovamente internata. Terra Santa, Diario di una diversa, Tormento delle figure risalgono a questa sofferta, prospera fase.

Negli anni ’90 viene da una parte riconosciuta come poetessa, dall’altra “braccata” come “tesoro di cassa” dei media, coperta da etichette, pettegolezzi che ne offuscano la grandezza, senza mai sollevarla dalla povertà.

In ultimo assume toni mistici e aforistici, come in La carne degli angeli, L’anima innamorata.

È morta quindi una donna la cui poesia sgorga spontanea «come fiotti di sangue» da rivalsa, abbandono in un’introspezione dolorosa, contraddittorietà e incredibile vitalità.

Amore voglioso e religioso, angoscia e amara consapevolezza di violenza si intrecciano in un grido, un sogno, ovvero nella sua poesia, immersa in una logica a sé ma aperta a chiunque.

Questo perché, nonostante abbia combattuto indicibili asprezze, ha cercato speranza, affidandosi a persone che l’hanno umiliata e emarginata, altre supportata (come l’editore Schewiller, il musicista Nuti, la dottoressa Rizzo…).

La scenografia essenziale non lascia distrarre dal soggetto, né percepire mancanze, le tracce audio calzanti, le poesie così cucite insieme rendono egregiamente tale vissuto intensissimo e toccante, attraverso genuina, coinvolgente recitazione, concentrata ma esplosiva, fatta di due diverse voci, gestualità amalgamate dai sussurri alle urla, alle frenetiche gesticolazioni.

Nonostante l’intima lacerazione, ogni elemento dello spettacolo contribuisce a definire armonia, priva dell’affettazione tipica dei discorsi d’amore, perché proviene da un sentire autentico.

Si aprono orizzonti di riflessione, tra i quali spicca il nostro grave “peccato” di non trovare la felicità, benché ci troviamo in una democrazia che (almeno in parte) garantisce diritti altrove calpestati, sebbene disponiamo del mezzo per elevarci quotidianamente: la vita!

Si ringraziano dunque gli attori, che hanno gentilmente concesso la seguente intervista.

Prima è però doveroso, seppur superfluo, presentarli.

Marcello Prayer, diplomatosi presso la Scuola di Espressione e di Interpretazione Scenica di Bari, sotto la guida di Orazio Costa come Boni, inizia da attore di teatro classico aperto alle sperimentazioni. Nel suo curriculum, ad esempio, l’adesione al progetto Divina Commedia – laboratorio per un Teatro di Poesia, la recitazione in La tragedia di Amleto, principe di Danimarca. Si dedica poi alla regia e ai set cinematografici, come con La meglio gioventù, Quando sei nato non puoi più nasconderti, L’ultimo crodino, Galantuomini. Insegna Metodo Mimico sulle orme del Maestro Costa con applicazione alla poesia corale; dal 2003 è Direttore Artistico della scuola di teatro Officina – Teatro del Banchero di Taggia, dal 2009 dell’Associazione Arte nel Cuore – Teatro Integrato Abili/Disabili. Ha recentemente portato sul palco altri spettacoli come Realtà e Verità. Serata per Pasolini, Di sangue e di terra. Serata per Pavese, Don Chisciotte con Alessio Boni.

Questi, diplomatosi all’Accademia nazionale d’arte drammatica, senza abbandonare le rappresentazioni teatrali, decolla sul set con ruoli di rilievo, in film quali La meglio gioventù, Quando sei nato non puoi più nasconderti, Puccini, in serie televisive come La Compagnia del Cigno. Nel 2021 esce Mordere la nebbia, la sua autobiografia in cui delinea l’umanità di un attore che, prima di realizzare la propria vocazione, si è cimentato in realtà svariate, da piastrellista a pizzaiolo, visitando luoghi di promesse e degrado.

Come nasce, si è evoluta la vostra collaborazione, soprattutto per questo tipo di spettacolo in cui fate rivivere poeti come la Merini?

Marcello Prayer: «Nasce dal nostro maestro Orazio Costa Giovangigli che ci ha formato secondo la disciplina del coro, metodologia cui apparteniamo. Di qui, da un trentennio usiamo lo strumento che amiamo chiamare “concertato a due”, in cui due voci si incontrano sulla stessa parola, cercando di fondersi e diventare una».

Non c’è la preoccupazione di non raggiungere il pubblico, generalmente attratto da temi più superficiali?

Marcello Prayer: «Lavorando con onestà e aderenza all’argomento poetico trattato, si è al servizio dell’essere umano, perciò a lui vogliamo avvicinarci».

Qual è il legame tra questo lavoro e l’inaugurazione del Festival delle Associazioni Culturali Fiorentine? Perché insomma avete deciso di partecipare?

Alessio Boni: «Non abbiamo deciso noi, ma dobbiamo ringraziare il Teatro della Pergola, che ci ha onorati chiedendoci di venire. La Pergola è stata la casa Orazio Costa, quindi ci dedichiamo ad essa quanto possibile».

Com’è venuta l’idea di incentrarsi sulla Merini, quali emozioni, riflessioni volete trasmettere attraverso il lavoro, magari a chi?

Alessio Boni: «Il tutto è nato nell’estate del 2012, dopo il terremoto in Emilia Romagna. Siamo andati a vedere gli edifici dei terremotati quando si viveva la zona rossa, il dramma della perdita, e dovevamo in qualche modo intrattenere gli sfollati in un campo sportivo adibito allo svago. Non facciamo commedie, ma non potevamo proporre tragedie, per cui abbiamo la preparazione. Allora ci siamo chiesti: chi in Italia ha scritto versi avendo affrontato un dolore atroce? Scardinare la biografia della Merini è spaventoso: dentro e fuori dal manicomio per più di vent’anni, figlie portate via anche appena nate, ma trascendendo tutto ciò lei ha reagito, anziché incattivendosi, esternandosi con versi d’amore, così potenti da perdere anche identità di sesso. Ciò ci sembrava un messaggio esemplare per i terremotati, e con esso abbiamo creato questo spettacolo».

In confronto alle vostre aspettative, che riscontro avete ottenuto?

Marcello Prayer: «La Merini ci porta per mano, suggerendoci di servire la poesia senza aspettative».

Alessio Boni: «Continuano a chiederci di rappresentare il concertato per la Merini dal 2012, mentre quelli su Ciampi, Gaber, Pasolini, Pavese sono stati messi da parte. Forse perché in fondo siamo tutti dei terremotati, nell’anima, soprattutto dopo la pandemia, perché lei ha espresso questo con la sua lirica sconfinata, meravigliosa ma anche fatta di quotidianità, di diretta rivelazione dell’essenza, di conflitto e commistione tra religiosità e erotismo, elementi che accomunano tutti».        

Potreste parlare dell’elaborazione del lavoro, toccando punti come il perché delle vostre scelte tecniche, dalla musica alla scenografia, alla selezione dell’insieme di poesie proposte?

Marcello Prayer: «Lo spettacolo si gioca sulla nudità: non c’è apparato scenico e le tracce audio, l’insieme delle poesie vogliono far emergere la voce dell’Autore dei versi. Si comincia con la sua voce registrata, poi cerchiamo di continuarla attraverso la nostra».

Alessio Boni: «È una cordatura: Alda ci porta assieme al pubblico nel suo mondo, in cui è intervistata, canta, detta versi. Sappiamo solo chi parte: poi concertiamo, uno ascolta l’altro e ne amplifica la parola. Ciò rende perfettamente la dualità della Merini, con cui instauriamo sintonia, benché sia donna, mai letta da grandi interpreti quali Gassman».

Perché avete scelto questo titolo per lo spettacolo?

Marcello Prayer: «Ci sembrava significativo perché nessuno meglio della Merini può parlare di e a chi non ha potuto esprimersi, essendo lei esclusa e inclusa stranamente nella società. Grazie alla sua esperienza, ha cantato l’amore francescano, che comprende tutti».      

È stata faticosa l’elaborazione del lavoro?

Marcello Prayer: «Per ultimare lo spettacolo, inteso come resa della testimonianza dell’autrice nella sua concretezza, abbiamo impiegato circa sei mesi, interrogandoci sul significato della poesia: è mettere a nudo il sentire umano, perciò si può parlare di fatica nel senso di servizio di sensibilizzazione alla società».

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