Piera Donna è nata a Firenze nel 1973, e qui oggi vive e insegna, dipinge acquerelli, disegna a pastelli e matita presso Isabelle Cornière, scuola d’arte fiorentina. Gestisce la pagina Facebook La poesia venne a cercarmi. Oltre alla laurea in Lingue e Letterature Straniere e Moderne, ha conseguito la pubblicazione di tre raccolte di poesie: Nel farsi di un volto (1995), Attesi da un incontro (1998) e Chi mi fa fiorire (2018). I colori dell’acqua (2017) è un catalogo della mostra di acquerelli e dipinti a olio del pittore Riccardo Pozzani accompagnati dai suoi versi.
Ci ha gentilmente concesso la seguente intervista circa la sua vocazione poetica, come si è evoluta da segreto bisogno di bambina a canale di relazione con l’altro.
Da piccola sentiva bisogno di scrivere. A cosa era legato questo bisogno e come si è evoluto negli anni?
«Ho iniziato a scrivere a circa 11 anni in un quaderno che conservo tuttora, perché sentivo il bisogno di capire me e ciò che mi succedeva in un momento di cambiamento, la preadolescenza … la scrittura è stata un canale di espressione privato, senza giudizi altrui. Ci sono alcune delle mie prime poesie che leggo quando incontro i ragazzi delle scuole. Una ad esempio riguarda lo scoprirmi sola e l’avere bisogno di un amico che potesse capirmi fino in fondo, un’altra riguarda le mie domande sul senso della mia vita: sono domande di una ragazza di undici anni, senza rime, con uno stile colloquiale molto semplice: non c’era la ricerca della parola, ma più un lasciar fluire pensieri, sentimenti, domande, inquietudini.
Ho ripreso a scrivere seriamente alle superiori grazie al professore Gilberto Baroni, che mi ha fatto amare la letteratura: ho iniziato a capire nuovi modi di esprimersi attraverso la poesia. Quindi il mio primo libro Nel farsi di un volto ha tutto un altro stile rispetto a quello della mia prima adolescenza; la scrittura cambia con noi: allora avevo un’altra consapevolezza, un altro uso della parola; in questa raccolta uso immagini che evocano sentimenti, situazioni: ad esempio in Crepe, ci sono metafore che riguardano la secchezza delle crepe, il deserto, la sabbia, l’aridità. È una poesia emblematica per me perché esprime il mio sentirmi arida di allora, il desiderio e l’attesa di una vita bella.
Alcune di queste poesie sono confluite in un libro che ho scritto con altri ragazzi, Attesi da un incontro. La svolta successiva è stata circa venti anni dopo: era un momento difficile in cui sentivo il bisogno di esprimermi; così è uscito Chi mi fa fiorire. Poi ho partecipato alla mostra I Colori dell’acqua, accompagnando i quadri del mio amico pittore Riccardo Pozzani con dei miei versi: qua la struttura è ancora più essenziale, perché ho capito che con poche parole, togliendo aggettivi, congiunzioni, posso esprimere le cose importanti per me; qualcuno infatti ha parlato di stile ungarettiano nei miei versi.
Quindi per me la poesia è scrivere di getto quando viene in mente una parola, un’immagine, per poi lavorarci e raggiungere la parola d’argento, secondo Isabella Leardini, la parola che è tua, esprime ciò che volevi, senza per forza essere aulica.»
Quali sono esempi di parole/espressioni “d’argento” che ha trovato nel fare poesia?
«Nella prima produzione ho usato metafore che al dire di lettori colpivano per originalità e universalità, ad esempio nella poesia Crepe l’espressione tra le fessure delle mie mani crepate. Le mani permettono di fare tante cose, ma se crepate, per le fessure si lasciano sfuggire occasioni buone, disperdono solo sabbia, secca e arida; per mani “crepate” si può intendere anche “morte”.
Nell’altra collezione Chi mi fa fiorire, penso che la parola d’argento sia ad esempio una parola che ho inventato in modo che corrispondesse sinteticamente al concetto che volevo evocare; in una sera all’imbrunire fui presa da un forte senso di tristezza, e mi venne l’ispirazione per i versi che contengono questo neologismo: Cos’è questo grumo di tristezza/ quando la sera s’imbuia? Imbuiarsi non esiste, ma rende l’idea della sera che diventa sempre più buia.»
Ha avuto la possibilità di esprimersi e arrivare a un pubblico. Come si è sentita in questa esperienza?
«La possibilità si è aperta dalle prime condivisioni che ho fatto della mia poesia con persone care, chiedendo un loro parere. La prima persona che mi ha dato una spinta decisiva nel pubblicare le mie poesie mi disse che erano così belle da far stare bene, smuovere domande profonde negli altri; aveva una tipografia e come regalo mi permise di pubblicare Nel farsi di un volto. Un’altra svolta c’è stata con la partecipazione alla mostra di Riccardo Pozzani, dato che persone sconosciute sono venute a raccontarmi della loro vita: quello che avevo scritto comunicava loro e li apriva, cosa che ho pensato essere bellissima in un mondo in cui aprirsi è faticoso. Non davo loro risposte, ma parlando capivano cose importanti. Allora ho deciso di proseguire questo cammino parlando ai bambini, ai ragazzi delle scuole che mi sembrano aver bisogno di questo, non per la presunzione di insegnare a poetare, ma perché condividendo i miei versi può scattare un lavoro su di sé in chi li ascolta, possono emergere domande, bisogni altrimenti trascurati. Ho avuto anche riscontri meno positivi, ma piuttosto che critica, l’indifferenza, che comprendo, dato che il mio non è un linguaggio che arriva a tutti.»
Quali sono stati gli artisti che l’hanno ispirata?
«Nel corso del tempo i poeti sono diventati per me amici che sanno vedere più a fondo la vita e possono illuminarmi. Alla scuola superiore ad esempio il professor Baroni ci ha fatto conoscere Leopardi, Ungaretti, Montale, dando una prospettiva differente dalla solita retorica: ho scoperto ad esempio un Leopardi diverso dal genio sfigato e pessimista, un poeta di grande umanità, con domande angosciose sulla vita che ci accomunano. Ha avuto una vita dura: si è scontrato con la malattia, la morte, ma tornava sempre a un forte desiderio di bellezza e di bene. Anche Ungaretti è importante per me: ha vissuto la guerra, perso amici e con poche parole essenziali descrive questo dolore, la bellezza della natura. Credo che mi sia successo per la poesia ciò che avviene quando si impara a scrivere a scuola: leggo e incoscientemente trasporto lo stile di poeti che ammiro su ciò che scrivo. Quindi un invito è senz’altro a leggere per imparare a scrivere.»
Come vive la poesia nella quotidianità? Qualcosa in particolare la spinge a leggere o comporre poesie?
«Tutti i giorni leggo poesie, e alcune ripetutamente, perché ne sento il bisogno. Leggere è diverso da scrivere: per me è come cercare un amico a cui fare domande. In un momento difficile leggo autori in cui trovo qualcosa che mi parla e mi dà forza per non rinchiudermi. L’esperienza della poesia per me non è solo lo sfogo di emozioni, un modo di relazionarmi con gli altri, ma una tendenza alla conoscenza: la poesia mi aiuta a conoscere meglio me stessa e ciò che mi sta attorno.
Invece non riesco a gestire regolarmente la scrittura: ci sono periodi in cui scrivo tanto, in altri meno. Ma non me ne devo fare un problema: dipende dall’ispirazione, dagli impegni. In questo periodo mi sono espressa incontrando ragazzi delle scuole e parlando della poesia, di come la vivo. Le domande, le attenzioni, il dialogo con voi ragazzi mi dà tanto, non sono solo io a offrire. Penso alla personale definizione di poesia di una ragazza che ho incontrato, che mi ha colpita: sostiene che la poesia sia qualcosa che la fa innamorare della realtà. »
Nel momento in cui scrive pensa all’attualità, lo fa in fusione con altri tipi di arte (guardando la natura, un quadro, ascoltando musica …)?
«In generale scrivo in momenti inaspettati: delle parole mi sono venute ad esempio mentre ero in autobus. Sento che qualcosa vuole uscire da me, e col silenzio riesco a guardarmi dentro.
Ciò che scrivo quindi riguarda la sfera personale, i miei incontri. Nella prima produzione ad esempio parlo molto di persone che mi hanno toccato. In Chi mi fa fiorire invece la natura è motivo di ispirazione, alberi, fiori e foglie diventano simboli di qualcosa che li trascende.
Non parlo di fenomeni sociali o politici.
Con la poesia mi confronto con qualcosa di più grande, mi misuro con Dio, ma senza usare parole catechistiche (Dio, Santi, perdono …), ormai svuotate di esperienza, che non arrivano ai più. Delineo con elementi quotidiani, ad esempio un’alba, ciò che mi avvicina, penso, al divino. Secondo me, chi fa poesia è religioso perché ciò di cui scrive è segno di qualcosa di più grande. La foglia che cade non è solo una foglia, è simbolo della vita che ci abbandona. Ma allora qual è il significato di questo abbandono?, si chiede il poeta.
Ho voluto sperimentare più arti in questi anni e ho capito che per me l’arte è un linguaggio importante. Ho provato a dipingere, a suonare la batteria, ma la poesia mi viene più naturale. Nella mostra di Pozzani siamo riusciti a conciliare il linguaggio delle forme e dei colori con quello della parola, così la parola ha dato forza all’immagine, e viceversa.»
Quali sono i suoi progetti, le sue speranza da poetessa?
«Da un anno porto avanti con degli amici degli incontri per scambiarci poesie che hanno fatto nascere Aperiversi, un luogo dove possiamo esprimere noi stessi con libertà e verità, dove ci ascoltiamo senza essere giudicati, con profondità e rispetto dell’esperienza di ognuno che passa dalla bellezza della parola poetica.
Infine, mi auguro che la poesia possa tornare a essere vicina alla vita, a nutrire la nostra vita, a darle energia, perché può aiutare a darle un senso, gestire problemi e dialogare davvero con l’altro. Penso che ce ne sia molto bisogno, perché spesso siamo frenetici, riempiti di attività da svolgere, e anche se in un primo momento può spaventare, è importante e benefico fermarsi, guardarsi dentro e guardare più in profondità la realtà attorno a noi.»