Un musicista solo per il pubblico o un gigante della storia della musica?
All’alba vincerò …purtroppo perse la sua battaglia contro il cancro, ma in compenso ha vinto quella per l’immortalità. Il 29 novembre si celebra il centenario della morte di Giacomo Puccini, uno dei più grandi compositori e operisti mondiali, conosciuto, amato e rispettato anche da chi non frequenta il teatro. Questo musicista, benché all’inizio snobbato da buona parte della critica, influenza ancora la musica di ogni genere, e i suoi lavori continuano a emozionare il pubblico ora e per sempre. Le sue opere più famose sono La bohème, Tosca, Madama Butterfly e Turandot, l’ultima opera rimasta incompiuta che ha composto prima di morire di tumore alla gola, in una clinica di Bruxelles.
Il maestro Francesco Pasqualetti, giovane e rinomato direttore d’orchestra, docente di lettura della partitura al Conservatorio “G. Puccini” di La Spezia nonché autore di un bellissimo romanzo storico – musicale (la Regina della Notte) ci racconta di come è stato emozionato profondamente anche lui dalla musica di Puccini, la grande influenza che ha ancora il compositore, come era percepito al suo tempo e i suoi (capo)lavori.
Maestro, una domanda forse banale ma … non troppo; a cento anni dalla sua scomparsa, cosa significa Giacomo Puccini per un musicista e per il pubblico di oggi?
È facile rispondere perché Puccini è una certezza. Lo è perché da sempre ha fatto innamorare immediatamente il pubblico delle sue opere, per la qualità artistica e artigianale insieme delle sue composizioni; ed anche per i direttori artistici che programmano le opere di Puccini perché hanno quasi sempre la garanzia di avere il teatro pieno. Quindi è una certezza per tutti gli attori del mondo teatrale: chi organizza, chi esegue e chi ascolta. Ed è un qualcosa che non capita così spesso, quindi è una certezza a 360 gradi. Mi viene da dire che è qualcosa di più: è perfino un faro, cioè una figura che ha ispirato con la sua luce artisti di diverse generazioni. E proprio esattamente come un faro getta luce da una parte ma anche un cono d’ombra su un’altra: ovvero i compositori a lui contemporanei, che hanno un po’ risentito della sua grandissima popolarità. Penso ad autori come Arrigo Boito, Umberto Giordano, Alfredo Casella, Ottorino Respighi e altri grandissimi artisti di quel periodo storico contemporanei a Puccini, le cui opere ancora oggi godono di fama alterna proprio perché, si dice, non c’è paragone con i suoi lavori. Cosa che ovviamente è vera fino a un certo punto: ecco perché questa metafora del faro probabilmente rende bene l’idea. Getta un cono di luce, di speranza e di salvezza ma dietro c’è anche il buio
In passato, si sono stati clamorosi fraintendimenti da parte di certa critica nei confronti di Puccini, fino a quell’odiosa definizione di “musicista delle sartine”. Possiamo considerarli definitivamente superati?
Secondo me sì, e per una ragione molto specifica. Nel Novecento c’è stata storicamente una tendenza a ideologizzare alcuni compositori e una certa musica. Più che la categoria mi piace, non mi piace; è bello, non è bello, si imponeva la categoria è musica impegnata? è musica complessa? Se era musica complessa, impegnata, voleva dire che era bella. Se era musica di facile ascolto, significava che era superficiale. Questo è un aspetto “ideologico” che ha permeato la critica, i musicisti e i musicologi per tanti anni. Si sente dire in generale che le ideologie sono morte e che siamo in un presente post ideologico: questo ha conseguenze positive e negative. Di positivo c’è che finalmente non si ritiene più che una melodia bella sia per questo superficiale, e che la musica debba essere un po’ ostica affinché si possa definire di qualità. Per molti anni il solo fatto che un brano venisse considerato di facile ascolto portava a considerarlo di serie B. Questo soprattutto in Italia, in quanto c’è stata una generazione di direttori d’orchestra, che Puccini l’ha maneggiato “con grande cura”, se non l’ha proprio eliminato dal loro repertorio, mentre Herbert von Karajan in Germania è stato uno dei più grandi direttori pucciniani. Quindi questo aspetto ideologico era particolarmente vero in Italia, dove la musica per essere considerata valida doveva essere complessa e anche un po’ ostica. Questo momento è finito e a mio parere siamo molto più liberi. Quelli della mia generazione non si pongono assolutamente un problema del genere; posso raccontare al riguardo un aneddoto divertente. Qualche anno fa avevo proposto la musica di Nino Rota ad un direttore artistico, quindi a una persona incaricata di fare la programmazione di un festival. Rota è un autore degli anni ‘50 ed è un grandissimo compositore che ha scritto opere liriche fantastiche ma anche musiche da film e alcune canzoni che hanno avuto molto successo come Viva la pappa col pomodoro. Ebbene, quando andai a proporre l’esecuzione di musiche di Nino Rota a questo direttore artistico, mi rispose: “la musica di Rota non verrà mai eseguita nelle mie stagioni”. Ecco dove arrivava l’ideologia! Solo perché aveva scritto musica da film che era considerata negli anni ‘70 e ‘80 di quarta, quinta, sesta categoria dai colti musicisti dell’intellighenzia musicale. Queste critiche venivano da intellettuali molto in vista, da persone di una cultura estrema, così ferme nelle loro convinzioni culturali da attaccare paradossalmente ciò che piaceva al pubblico. Ecco il grande fraintendimento. Le opere di Puccini sono di un grandissimo compositore, così come quelle di Rota. Stiamo parlando infatti di geni assoluti a cui il favore del pubblico non è mai mancato: alla fine ha vinto proprio il pubblico.
Da un punto di vista musicale e culturale, Puccini è più legato all’Ottocento o al Novecento?
Questa è una domanda difficile, perché come la sua vita si svolge a cavallo tra ’800 e ‘900, così la sua arte, le sue storie, le sue opere sono esattamente in mezzo alle due epoche. Mi verrebbe da dire che le sue storie, ovvero la trama dell’opera, hanno in genere un collegamento più marcato con l’800. Il suo stile musicale pian piano si evolve invece verso le tendenze del Novecento. Ricordo ancora una frase di un mio maestro che diceva: che Puccini sia morto dopo Turandot è una tragedia non solo umana perché è mancato relativamente giovane per un cancro alla gola, ma per la musica. Perché in Turandot aveva rotto quasi tutte le regole della tonalità, superato praticamente tutte le regole ottocentesche delle consuetudini armoniche in uno stile orecchiabile, fruibile: quindi era praticamente a un passo dalla atonalità. Solo che era una atonalità melodica italiana, ben più fruibile rispetto alla atonalità come l’abbiamo conosciuta poi, di matrice tedesca assai ostica. Quindi Puccini è veramente un ponte fra queste due epoche.
Oltre che direttore d’orchestra, lei è docente di lettura della partitura al conservatorio della Spezia, che porta proprio il nome del grande musicista lucchese. Può dirci, con un linguaggio accessibile al… profano volgo (per citare Bohème) le caratteristiche della scrittura musicale pucciniana?
Senza entrare appunto nei dettagli tecnici o armonici, che sarebbe cosa assai complessa, diciamo che le caratteristiche di Puccini sono due: la potenza della melodia e il canto di conversazione. Le melodie di Puccini entrano nel cuore al primo ascolto, stupiscono e conquistano immediatamente. Questo tono melodico che può sembrare scontato, è in realtà raro averlo così diffuso e prodigo di bellezza. L’altra cosa che Puccini sviluppa si chiama canto di conversazione. È una cosa che non fa solo lui, ma che gli riesce particolarmente bene. Ci sono infatti momenti in cui gli attori, i cantanti in scena cantano belle melodie, altri in cui invece dialogano. Un tempo queste sezioni, nella vecchia forma della opera lirica settecentesca, erano divise: c’era l’aria, quando il cantante cantava per circa 3 minuti e l’azione scenica si fermava. L’interprete si esibiva in bellissime melodie, faceva delle piroette vocali accompagnato dall’orchestra: vere e proprie acrobazie tecniche. Poi c’era il recitativo secco, accompagnato dal clavicembalo, dove si dialogava, quasi si cantava: ma era in realtà un cantato quasi parlato con cui si portava avanti l’azione drammaturgica. Poi ci si fermava e c’era di nuovo un’aria o un duetto in cui due personaggi si innamoravano e si scambiavano tutte le dichiarazioni d’amore. Poi ci si fermava, c’era di nuovo il clavicembalo che accompagnava il dialogo. Questa forma, questa alternanza tra recitativi e arie al tempo di Puccini è definitivamente superata. E Puccini è maestro non solo della melodia, ma anche di ciò che sta in mezzo a due grandi melodie ovvero questo canto di conversazione che rende la musica un flusso unico e molto più simile alla realtà: per quanto ovviamente l’opera sia una finzione, in questo modo la si avvicina al mondo vero.
Si insiste molto, parlando della drammaturgia musicale pucciniana, del legame tra amore e morte. Secondo lei questo è esatto? Come si percepisce nella musica?
Quando si parla di amore e morte bisogna fare attenzione perché è un legame così famoso da finire con l’essere luogo comune. Quindi bisogna andarci molto delicatamente. Ovviamente è uno dei grandi temi del romanticismo, ma risale addirittura dall’epoca classica, quindi Eros e Thanatos. Per esempio quando leggo una melodia discendente, come quando Mimì nel primo atto canta questa melodia “Ma quando vien il gelo, il primo sole è mio”, è una cosa bella: ma la melodia è per l’appunto discendente, quindi in realtà lei sa già che deve morire. È difficile parlare di questo tema senza dire qualcosa di troppo facile o banale o solo parzialmente vero. In una breve intervista di questo tipo è un argomento da maneggiare con grande attenzione.
Il “mistero” di Turandot. C’è chi sostiene che non siano state tanto la malattia e la morte a impedirgli di finirla, ma la difficoltà di descrivere un amore che non uccide ma redime. Lei cosa ne pensa?
No, non credo. Penso che in Turandot Puccini stesse attingendo a tutte le sue risorse nella volontà di creare questo linguaggio, che si spinge ai limiti della tonalità pur restando tonale, per cui credo che la difficoltà fosse questa. Ritengo anzi che con il verso finale cantato da Turandot “il suo nome è amore” la principessa dichiara che è finalmente innamorata, che il ghiaccio si è sciolto, si può tornare ad amare e lei non manda a morte Calaf, come pure potrebbe fare. Sono quindi convinto che questo “il suo nome è amore”, porta alla risoluzione del conflitto; perciò amore non è ciò che ha creato l’ostacolo ma probabilmente ciò che ha generato il desiderio di comporre quest’opera. A mio parere la composizione andava per le lunghe perché stava lui male oggettivamente, e anche perché attingeva alle sue risorse più profonde per creare qualcosa di veramente unico; quando sei sul tetto del mondo tutti si aspettano che l’opera successiva sia ancora più bella. Se ogni volta crei un’epifania, crei una meraviglia e pertanto ci si aspetta che la meraviglia sia sempre maggiore.
Lei ha diretto diverse opere pucciniane (tra cui una Butterfly proprio al Maggio Musicale Fiorentino); quali emozioni dà dirigere Puccini? C’è una sua opera che predilige in modo particolare?
Comincio dall’ultima parte: l’opera che per anni è stata in assoluto la mia preferita è Tosca, un dramma di ambientazione storica. E la combinazione della bellezza delle armonie e dei contrasti storici che racconta un mondo antico e un mondo nuovo, l’ha resa per tanti anni una delle mie opere preferite. Ora, quali emozioni dà dirigere Puccini… le rispondo in un altro modo, ovvero quali emozioni mi ha dato una delle prime volte che ascoltavo la sua musica. Avevo 18 anni e guidavo la macchina da poco, avevo messo una cassetta della Butterfly e dovevo andare da Pisa a Livorno in autostrada. Dopo pochi minuti di ascolto arrivò il duetto d’amore della fine del primo atto, di una bellezza tale che a un certo punto mi ritrovai a Cecina. Avevo sbagliato di diversi chilometri l’uscita dell’autostrada. Grazie a Dio non avevo fatto incidenti. Questo per dire che è una musica che letteralmente ti porta in un altro mondo. Quando poi lessi Rosignano mi accorsi che avevo mancato l’uscita dell’autostrada proprio di parecchio. Quindi è una musica che ci parla di bellezza e ce n’è tanto bisogno. Lunga vita all’opera di Puccini!