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Le interviste del Leo 113. Francesco Cilluffo, direttore d’orchestra, esperto di opere liriche non di repertorio e direttore principale del festival di Wexford:  Pietro Mascagni e Le Maschere, perché la critica così ostile? Con passaggi su Arrigo Boito e Alberto Franchetti

Il maestro Francesco Cilluffo (per sua gentile concessione)

Negli ultimi giorni di ottobre è andata in scena al festival di Wexford in Irlanda, uno dei più prestigiosi in Europa che ripropone spesso titoli dimenticati dal grande repertorio l’opera le Maschere (1901) del compositore livornese Pietro Mascagni (1863-1945) diretta dal maestro Francesco Cilluffo che del festival è direttore principale. Un melodramma giocoso con cui Mascagni volle riallacciarsi alla tradizione della Commedia dell’Arte per il soggetto (il libretto fu di Luigi Illica) e alla grande tradizione della scuola napoletana e al Rossini buffo per la musica. Fu escogitata anche una campagna pubblicitaria davvero insolita: la prima rappresentazione fu data contemporaneamente in sette importanti città italiane ( tra cui Milano con il teatro alla Scala, Roma con il Costanzi, Genova con il Carlo Felice etc…) ma solo a Roma l’opera ottenne successo e in seguito, malgrado una successiva revisione del 1931, è stata raramente rappresentata. Anche la ripresa di Wexford però, nonostante l’accoglienza favorevole del pubblico, non ha riscosso molto favore tra i critici, che hanno contestato proprio la scelta del titolo e non la sua esecuzione.

Il maestro Francesco Cilluffo ha una collaudata esperienza in titoli non di repertorio: ad esempio il  Campiello di Ermanno Wolf Ferrari  e le Braci di Marco Tutino al  Maggio Musicale Fiorentino, due spettacoli splendidi in cui ha restituito tutta la magia del compositore “goldoniano” e l’emozione di un capolavoro contemporaneo;  sempre di Tutino ha diretto di recente l’opera la Ciociara a Wexford con grande successo di pubblico e critica. E poi Cilea, Mascagni, Catalani: nomi che per molti, troppi sono nel migliore dei casi legati a un’unica opera o poco più. Quello che caratterizza il maestro Cilluffo, direttore molto stimato e apprezzato anche all’estero, è la grande passione e il grande studio che dedica soprattutto alle opere meno note, che si riflettono poi nella sua prassi esecutiva, precisa, attenta al dettaglio ma anche capace di restituire tutta la carica emotiva di una partitura. Un esempio memorabile, oltre alle Maschere, è senz’altro il Nerone di Arrigo Boito, rappresentato all’inizio di quest’anno al teatro lirico di Cagliari in perfetta sintonia con il regista Fabio Ceresa e di cui è uscito proprio in questi giorni il DVD.  Siamo particolarmente onorati di poterlo intervistare.

Maestro, parlando delle Maschere di Pietro Mascagni andate in scena di recente al festival di Wexford; a quello che ho potuto vedere  c’è stato un discreto successo di pubblico, ma… per parafrasare la furlana la critica alle lodi arriccia al naso. È andata veramente così?

 In realtà sì, nel senso che il pubblico era divertito o comunque coinvolto, ma devo dire che con pochissime eccezioni – tra queste per fortuna  Gramophone l’importante pubblicazione inglese – è stato un nuovo bagno di sangue per Mascagni. La critica ha stroncato proprio l’opera in tutto e per tutto, compresa anche la musica, quindi è stato un’ulteriore conferma che purtroppo Mascagni deve ancora veramente essere accettato e riscoperto per quello che merita.

E questa non è certo una novità nel senso che quasi sempre quando si dà un’opera di Mascagni che non sia Cavalleria Rusticana in genere si scatena un coro di crucifige.  Lei ha diretto anche il Guglielmo Ratcliff e varie altre partiture mascagnane; a suo parere è veramente giustificato questo dualismo esagerato, il sommo Puccini da un lato (con tutto il rispetto per Puccini ovviamente) e il mediocre Mascagni dall’altro?

No ovviamente questo dualismo è assolutamente sbagliato. Ci sono comunque delle eccezioni: dalla critica anglosassone  il Ratcliff  è stato salutato con grandissimo entusiasmo quando l’ho diretto a Wexford;  ho poi eseguito a Londra anche Isabeau, un titolo che io amo molto e abbiamo avuto tutto esaurito una settimana prima che si facessero le cinque recite previste.  In generale, se pur con maggiore cautela, anche quella era stata vista come un’operazione sostanzialmente meritoria, quantomeno di recupero.  Devo però dire a parziale discolpa della critica: prendiamo ad esempio Tosca, noi ormai non ci chiediamo più se sia un’opera che valga o meno. Eppure quando l’ho eseguita quest’estate a Londra, c’era ancora chi recensiva l’opera, chi diceva “ma Tosca sì ha un certo effetto però forse non è l’opera più alta…”. Quindi io penso che il problema, che si ripete ad esempio quando si dà suor Angelica in Inghilterra, nasce sempre con quello che viene percepito come il lato verista ingenuo- sentimentale; e sottolineo percepito perché poi in realtà il valore dell’opera sta in tutt’altro.

Tornando alle Maschere, c’è chi ritiene invece che siano un esperimento interessantissimo, anche perché in un certo senso in anticipo su un certo neoclassicismo che poi prenderà piede. Secondo lei che ha la partitura sotto gli occhi: questo si vede realmente o come dicono invece i soliti ipercritici si tratta solo di una patina superficiale?

Secondo me si vede; intanto riallacciandomi alla domanda di prima quando mi viene chiesto “ma allora Mascagni e Puccini? ” io dico in maniera un po’ provocatoria: Mascagni  da subito dopo la Cavalleria Rusticana è per tutta la sua vita un avanguardista, uno sperimentatore. Puccini è un grande compositore che individuata una formula con Manon Lescaut  – quindi al terzo tentativo –  l’ha poi aggiornata ma sostanzialmente non l’ha mai cambiata. È arrivato vicino a cambiarla con Turandot ma non l’ha completata. E in questo avanguardismo nel vero senso della parola si inseriscono Le Maschere: vengono rappresentate circa due settimane prima che morisse Verdi, all’inizio del secolo, in un mondo che ha appena fatto i conti con Falstaff. Tra l’altro ricordiamoci che Falstaff all’inizio non era stimato il capolavoro che noi oggi consideriamo. Era ritenuto un titolo sperimentale che ha avuto un grande successo di stima tributato al monumento, al profeta vivente Verdi, ma il compositore stesso non lo reputava un successo perché non “vendeva” come altre opere. Noi sappiamo che Verdi, da quella persona concreta che era, pensava che nonostante tutto l’opera che non riempie, che non fa il tutto esaurito non è buona come quella che lo fa.  E per tornare alla sperimentazione: c’è, assolutamente. Come sempre in Mascagni è un misto di guardare oltre e percepire anche a livello letterario dove vanno la sensibilità e il gusto europei. In questo senso il suo neoclassicismo è, come faranno poi Richard Strauss e Ermanno Wolf-  Ferrari, il recupero di un passato perduto con la sensazione dentro la musica della malinconia, di quella che io chiamo la sehnsucht del mondo che non c’è più; la perdita di questo contatto con questa ideale età dell’oro che nelle Maschere diventa l’età felice dell’opera buffa, della commedia in musica dalla scuola napoletana fino a Rossini e Donizetti. E Mascagni capisce che già Verdi aveva toccato questo elemento e che c’è un potenziale forte per questa nuova estetica. E lo fa appunto nelle Maschere, laddove da un lato guarda al passato e quindi a Rossini, anche per la sua esperienza biografica di direttore in quegli anni del conservatorio di Pesaro, città natale di Rossini; ma dall’altro guarda in avanti. La Pavana delle Maschere ad esempio ha una scrittura che noi troveremo soltanto poi nel Prokofiev della sinfonia classica. Io facendolo poi con un’orchestra irlandese abituata in realtà a suonare Prokofiev più che Mascagni, mi sono sentito dire “ma questa scrittura sembra quella di  Prokofiev”;  e invece  siamo decenni prima. Quindi sì è un’opera assolutamente avanguardista e lo è anche nel suo elemento più debole, ovvero inevitabilmente il libretto e la trama. Di fatto nel 1901 Mascagni presenta un’opera senza trama, basata su delle situazioni meta teatrali con un recupero della commedia dell’arte. Non stiamo parlando di Ferruccio Busoni o di Richard Strauss, parliamo di Mascagni a cavallo tra XIX e XX secolo. Qui sta la grande novità; a mio parere uno dei motivi dell’insuccesso a livello di critica odierna è che si fatica a connettere l’ispirazione melodica di tipo ancora tardo romantico verista con un contenitore invece assolutamente avanguardista. Quindi c’è questa tensione tra questi due elementi, perché nella critica si pensa che avanguardista equivalga a linguaggio musicale avanguardista, mentre il  linguaggio musicale  tardo romantico e verista equivalga a trama è contenuto veristi;  ma è proprio l’unione assolutamente inusuale  di questi due che  lascia tuttora stupefatti.  Quindi se si guardasse, come spesso si dovrebbe fare, alla musica e al testo si vedrebbe che la chiave è lì.

 C’è quindi una commistione tra l’elemento verista e il contenuto diciamo pure “di manifesto” dell’opera che è avanguardista. La tensione è tra un linguaggio musicale assolutamente accessibile e invece un piano drammaturgico estetico del tutto avanguardista e nuovo. Tra l’altro scioccante perché l’inizio troviamo  un prologo che prevede degli interventi parlati e mai nella storia dell’opera italiana si era arrivati a questo se non con la prima versione del Mefistofele di Arrigo Boito, il che è uno dei motivi degli insuccessi della prima versione:  perché  il pubblico e la critica italiana non avevano mai pensato a una commistione di stili o di forme che si trovano appunto in un prologo in cui di colpo c’è gente che recita, che parla, che interrompe persino il direttore d’orchestra.

Quindi lei condivide la definizione di un biografo di Mascagni che lo chiamò “l’avventuroso dell’opera”?

 Secondo me sì: ogni opera di Mascagni è un grande tuffo coraggioso nel cercare di capire dove andasse l’estetica del momento.  Io penso che di Mascagni si possa parlare tranquillamente senza dover ogni volta tornare a un confronto con Puccini, perché si tratta di due compositori totalmente diversi. Tra l’altro è vero ad esempio che almeno ancora a fine ‘800 e inizio del ‘900 anche Verdi non pensava che il suo erede sarebbe stato Puccini, bensì proprio Mascagni e aveva allacciato un rapporto con lui. Pur restando comunque molto critico, Verdi venendo a conoscenza della Cavalleria Rusticana né è entusiasta e pensa decisamente che questo sia il suo erede, piuttosto che il Puccini che aveva conosciuto fino a quel momento.

Lei è uno specialista, molto benemerito, del repertorio meno noto. A questo proposito appunto è uscito recentemente il DVD del Nerone di Arrigo Boito che lei ha diretto magistralmente a Cagliari. Pensa che questo possa contribuire, parlando appunto di opere che meriterebbero una riscoperta e una rivalutazione, a ricollocarlo nella sua giusta dimensione?

Penso di sì: mai come in questo momento vengono infatti apprezzati la pluralità di stili e lo stimolo alla conoscenza di piani paralleli e questo favorisce il gusto della riscoperta di determinati lavori. Pertanto è uno dei momenti sicuramente migliori che possa capitare per cercare di riscoprire quest’opera e sicuramente, lo dico senza esagerare, penso che abbiamo scritto una pagina importante con questa interpretazione, perché secondo me abbiamo trovato grazie al fatto di aver lavorato a quattro mani con un regista come Fabio Ceresa una chiave per offrire quest’opera al pubblico di oggi. E penso anche che tante cose che forse all’epoca della prima del Nerone (1924) come negli anche anni successivi, non attraevano o lasciavano perplesso il pubblico, oggi proprio questi elementi possono essere invece un punto di forza per conoscere quest’opera. Io sono molto orgoglioso di questo lavoro, sicuramente una delle riprese di titoli desueti, e ormai ne ho fatto un certo numero, di cui sono più soddisfatto proprio perché l’ho sentito veramente, e questo ripaga tanto lavoro, tanto studio, tanta fatica: ho sentito  che veramente si aiuta l’opera, ponendola nelle condizioni migliori per essere davvero apprezzata dal pubblico e dalla critica.

Un’ultima domanda, a proposito di titoli meno consueti ha qualcos’altro in programma nel prossimo futuro ?

 Intanto nel 2025 farò a Wexford The Magic Fountain  di Frederick Delius ( 1862-1934) : un autore inglese poco apprezzato ma geniale e poliedrico, amico di Munch e di Gauguin;  Paolo Isotta addirittura lo definiva il più grande compositore sinfonico del Novecento. Poi purtroppo non ho in verità progetti concreti di cui possa parlare. Quello che posso dire si trova a metà tra una dichiarazione di intenti e un desiderio. Cito un bellissimo proverbio ebraico che dice “un sogno è un sessantesimo di profezia”, allora io penso che se la sogno sessanta volte alla fine la profezia diventa vera.  Credo che in questo momento l’autore che ancora vada riscoperto è Alberto Franchetti e secondo me c’è il terreno fertile per farlo. Perché in realtà tutti gli operisti a cavallo tra fine ‘800 e inizio ‘900 riscoperti recentemente  –  Cilea, Giordano, Mascagni stesso ovviamente –  hanno comunque avuto ormai più volte occasione di essere confrontati, rivisti e rappresentati. Oggi diamo Adriana Lecouvreur come un titolo scontato di repertorio, ma fino a vent’anni fa non era così, mentre adesso veramente la si fa ovunque. Franchetti sta un po’ al di fuori di questi recuperi e penso che sia un peccato perché in realtà per tanti versi, non magari necessariamente sempre per meriti musicali, è una figura che può essere aiutata dalla auspicata Boito reinassance che si spera di aver operato anche col nostro Nerone. Franchetti è una figura molto interessante e importante per capire il passaggio dell’opera italiana da Verdi a Puccini e al Novecento. Basti pensare che era l’autore che di fatto si era accaparrato Tosca dopo che Verdi l’aveva rifiutata come soggetto, e quindi il suo essere questo “cuscinetto” tra Verdi e Puccini nei passaggi del libretto di Tosca è una metafora perfetta della sua importanza. Sappiamo ad esempio che Verdi aveva suggerito di fare commissionare l’opera Cristoforo Colombo per l’anniversario al 1892 a Franchetti perché aveva sentito un suo lavoro, Asrael e l’aveva ritenuta un’opera importante. Tra l’altro Franchetti è il primo che capisce che bisogna fare un’opera su D’Annunzio. È il primo a capire come compositore che D’Annunzio è la grande risposta intellettuale culturale estetica dei bisogni dell’Italia giolittiana. Infatti la Figlia di Jorio di Franchetti è il primo titolo dove un libretto di D’Annunzio viene totalmente messo in musica. Quindi diciamo che il mio wishful thinking, per usare un termine inglese, è che Franchetti sia il prossimo a essere recuperato.

Molto interessante; si tratta in effetti di un personaggio oggi poco noto tranne che agli addetti ai lavori

Infatti; tra l’altro, tornando a Mascagni, c’è un collegamento con Franchetti che trovo particolarmente toccante e che dovrebbe insegnare qualcosa a chi continua a “politicizzare” la figura del compositore livornese. Sebbene Franchetti fosse molto più benestante alla nascita dei suoi colleghi compositori in quanto appartiene all’aristocrazia torinese, finisce poi la sua vita praticamente in miseria per tutta una storia di debiti, frequentazioni femminili sbagliate etc. Ed essendo morto nel 1942 fu vittima in quanto ebreo dell’ostracismo dovuto alle leggi razziali. Mascagni chiese un’udienza con Mussolini per chiedere di poter fare Cristoforo Colombo di Franchetti come direttore musicale a Roma, e c’è ancora conservata nelle gli archivi la cartella col caso Franchetti con un grosso “no” scritto sotto e firmato M sotto perché Mussolini rifiutò, nonostante Mascagni avesse insistito molto. Però pensiamo che Mascagni si confronta con Mussolini per permettere l’esecuzione di quest’opera. In un certo senso ricorda Richard Strauss che con Zweig si era battuto per la Donna silenziosa, volendo che il libretto fosse riconosciuto dell’autore anche se ormai Zweig non era gradito al regime.  Quindi l’idea di un Mascagni fascista è stata quantomeno esagerata: del resto la politicizzazione dell’arte genera mostri di ogni tipo sempre e comunque. Questo episodio, come la stessa composizione del suo Nerone del 1935 tutt’altro che agiografico nei confronti del regime fascista (che infatti non lo gradì) dimostra che in realtà Mascagni pensava con la sua testa e aveva uno spirito critico e anche uno spirito etico importante e non ha, in anni tra l’altro pericolosi per lui, esitato ad avere un’udienza con Mussolini per riabilitare Franchetti. E perché lo voleva riabilitare? Perché Franchetti è un compositore assolutamente importante che va conosciuto. Non tutto quello che ha scritto è ovviamente dello stesso livello di Mascagni, Cilea, Giordano eccetera, però penso che sia un momento assolutamente ideale per conoscere e rivalutare questa figura.

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