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Le interviste del Leo 112: Manu Lalli torna al Maggio con la Cenerentola di Rossini. Quando il buffo porta risate ma anche formazione, per giovani e adulti.

Dopo sei anni, torna al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino la celebre opera buffa di Gioacchino Rossini La cenerentola, ossia la bontà in trionfo. Come nel 2018, la regia è affidata a Manu Lalli, che ripropone un allestimento dinamico, adatto a evidenziare il lato magico della fiaba, rendendo l’opera adatta anche a giovani e giovanissimi.

Drammaturga e regista teatrale e d’opera, Manu Lalli ha sempre inteso il teatro anche come strumento di crescita e di sviluppo, collaborando con alcuni dei più prestigiosi teatri italiani per avvicinare i ragazzi al mondo della lirica

Nel 1993 fonda Venti Lucenti, associazione che da ormai trent’anni porta in scena spettacoli di prosa, di opera lirica e di divulgazione musicale collaborando con enti e istituzioni nazionali e internazionali prestigiosi.

La sua filosofia, che vede il teatro anche come strumento di formazione, trova espressione anche nell’allestimento che andrà in scena il prossimo 20 settembre, al Maggio Musicale, ma ancor di più nell’opera stessa. La Cenerentola, infatti, è l’opera buffa che forse esprime maggiormente il cambiamento, la crescita personale della protagonista che porta alla comprensione e infine al perdono.

Cenerentola è spinta da “Un desiderio di libertà, ma più ancora di rivendicazione di diritti”, come affermato dalla regista, che questo allestimento evidenzia. È questo il motivo per il quale anche i più giovani non solo sono in grado di apprezzare questa regia, ma addirittura possono trovare in essa una forma di educazione e di formazione che, passando per l’arte, è anche più diretta ed efficace.

L’originale opera di Rossini, andata in scena per la prima volta nel 1817, si ispira a una fiaba di Charles Perrault e dei fratelli Grimm, ma ne elimina gli elementi prettamente magici, che caratterizzano la fiaba. Niente più scarpetta di cristallo, fata e matrigna: al loro posto vengono introdotti rispettivamente un braccialetto e il personaggio di Alidoro, l’intelligente precettore del principe. Eliminati anche i topi che si trasformano in cavalli e la zucca che diventa carrozza.

Manu Lalli, invece, decide di non rinunciare del tutto agli elementi fantastici, introducendo le fate e anche l’iconica carrozza. Una scelta, questa, volta a enfatizzare il profondo messaggio del capolavoro Rossiniano, che dietro a scene buffe e talvolta esilaranti nasconde una vena di malinconia tutta umana.

Abbiamo avuto modo di approfondire maggiormente questi aspetti in un’intervista che Manu Lalli ci ha gentilmente concesso.

Lei è ormai celebre per le sue bellissime regie per Venti Lucenti, che mette in scena giovanissimi; ci racconta qualcosa anche della sua esperienza per il teatro… adulto?

Beh, in realtà non c’è una grande differenza tra fare le regie per le persone adulte e farle per i bambini, perché comunque il ruolo del regista è sempre quello di guidare le persone che stanno sul palcoscenico. Sono esperienze diverse, ma che si affrontano con lo stesso tipo di approccio, e con la speranza che le persone sul palcoscenico riescano a comunicare cose importanti agli spettatori. L’approccio che abbiamo noi con Venti Lucenti è quello di cercare di lasciare segni dentro le persone che recitano e dentro le persone che guardano, contagiare con l’amore per l’opera più persone possibile. Certamente gli adulti sono più competenti, però la speranza è sempre quella di coinvolgere il pubblico in un’esperienza di gioia, di bellezza, ma anche di comprensione.

A teatro, la cosa più bella è vedere un’opera per la prima volta, con lo sguardo epurato dalla competenza dell’adulto, che magari è abituato. Non c’è esperienza più bella di lasciarsi guidare in un percorso, in una storia della quale non si sa la fine, e guardarla come se si guardasse una qualsiasi nuova opera d’arte.  Solo in questo modo ci si abbandona al contenuto, e non tanto alla forma. Spesso si perde troppo tempo a guardare se l’allestimento è in un certo modo, se il cantante canta in un certo modo, e si rischia a volte di dimenticare la magia che l’opera comunica, che consiste appunto nel seguire una storia, un racconto che dice qualcosa a te, sulla tua vita, qualcosa che comprendi e che prima non avevi capito. D’altra parte, l’arte dovrebbe servire a questo, a cercare di accompagnarci nella comprensione del mondo e di sé, a farci vivere meglio la nostra vita.

Quindi credo che il percorso sia molto simile tra gli adulti e i bambini, perché con competenze diverse cercano tutti di fare lo stesso percorso: cercare di comprendere qualcosa di sé grazie al racconto di una storia.

Lei sostiene che Cenerentola contiene un desiderio di riscatto sociale; in che senso?

Questo lo comunica già la fiaba, per questo è così famosa, e per questo nei secoli ha continuato ad accompagnare generazioni di persone che la vedevano e la ascoltavano.

Nell’opera di Rossini, Cenerentola è figlia di una donna che, alla morte del marito, sposa un altro uomo. Morta la madre, Cenerentola si ritrova quindi con un patrigno, e non con una matrigna, come invece accade nella fiaba. Tuttavia, non c’è differenza riguardo alla riappropriazione della sua identità, perché appunto Cenerentola è una persona che è stata defraudata della propria ricchezza, non solo economica, ma anche del proprio ruolo nella società.

Cenerentola riesce a riottenere i suoi diritti attraverso il merito, merito che non viene da chissà dove, ma dalla propria personalità, dalla propria generosità e dalla propria intelligenza. Acquisire meriti attraverso questo percorso non è per niente scontato. Riuscire a passare dalla povertà alla ricchezza attraverso la propria virtù è una grande affermazione di diritto, perché il riscatto sociale passa dalle competenze e non da qualcos’altro, come la ricchezza o la conoscenza di qualcuno di influente; per questo sia la fiaba che l’opera sono così interessanti.

Rossini riesce a percepire molto bene la vicenda di Cenerentola, perché, come diceva lui stesso nelle proprie lettere, è diventato famoso, ricco e importante solo attraverso i propri meriti.

Con L’italiana in Algeri e Il Barbiere di Siviglia, Cenerentola è la terza opera della grande trilogia buffa di Rossini. Ma c’è qualcosa di diverso in quest’opera, un leggero tocco di malinconia, un sorriso forse più pensieroso?

 Beh, forse sì. C’è un accenno di malinconia in primo luogo musicalmente, perché ci sono dei motivi assai poetici, che accompagnano una grande storia d’amore, cosa che nelle altre opere è meno evidente. I personaggi del Barbiere di Siviglia sono un po’ più vibranti, anche se in realtà anche in quest’opera la ragazza ha i suoi problemi da risolvere.

 Forse Cenerentola è un’opera è strutturalmente malinconica; si può vedere anche nella scena iniziale, che comincia con la famosa frase “c’era un volta un re”.  Sembra che Cenerentola stia leggendo un libro, tanto che poi nella regia ho voluto che le sorelle facessero un’azione scenica nella quale bruciano i libri di Cenerentola, perché non vogliono che lei legga. C’è una forma di grande malinconia in questo, perché è come una stroncatura del “sogno” di Cenerentola, che nell’opera che ho realizzato al Maggio è molto evidenziata.

Probabilmente si, delle tre è l’opera più malinconica, perché questa ragazza è veramente abbandonata al suo destino. Le figure femminili delle altre opere sono sempre un po’ sofferenti, perché il meccanismo drammaturgico nasce laddove arriva una “frattura”, però qui questa frattura è assolutamente palese, ed è accentuata dal fatto che Cenerentola è giovanissima.

Secondo lei Don Magnifico e le due sorelle sono semplicemente stupidi o anche malvagi?

Assolutamente, credo che sia un po’ riduttivo credere che non siano malvagi. Forse le sorelle sono più “giustificabili”, perché sono giovani e anche loro trattate male dal padre, che è il vero personaggio malvagio. È il padre padrone, cattivo, aggressivo, che pensa solo a farle sposare per ottenere ricchezza, non perché le figlie siano felici. Quindi il vero personaggio negativo è lui, ed è lui stesso che dice chiaramente che ha dilapidato tutta la fortuna della madre di Cenerentola per abbigliare le figlie, in modo da ottenere un matrimonio vantaggioso e i conseguenti prestigi.

 Questo lo rende un personaggio un po’ ironico, perché tuttavia si comporta in modo buffo, goffo, e l’artista che lo interpreta è stato molto bravo a mantenere questo doppio binario, quello buffo ma anche quello crudele.

Questo rivela la grande modernità di Rossini, che si può evincere non solo dalla rappresentazione del personaggio del padre, ma anche in quello di Cenerentola stessa. Nella fiaba, la versione dei Grimm, le sorelle e la matrigna (che in Rossini diventa patrigno) vengono punite, perché Cenerentola gli manda contro degli uccelli che le accecano; la Cenerentola di Rossini, invece, perdona tutti, li perdona e li accoglie come se fossero padre e sorelle di sangue. Questa è una modernità pazzesca, perché il perdono non è istintivo come l’aggressività, ma lo devi pensare, lo devi maturare.

Colpisce molto anche la figura del principe, perché nelle fiabe i principi sono quasi sempre muti, statici, mentre in Rossini il principe diventa esempio di virtù concreta. Lui non vuole sposarsi sotto l’imposizione del padre, ma vuole innamorarsi senza sottostare a questa “tirannia”.

Quindi si, si hanno sicuramente esempi di malvagità, ma anche grandi personaggi positivi.

Lei aveva già fatto quest’opera nel 2018, l’edizione di oggi è la stessa o vi sono delle differenze?

Sicuramente quando si fanno le riprese delle opere, nell’arco di tempo che trascorre, si imparano tantissime cose nuove, e si acquisiscono delle competenze maggiori. Gli spartiti hanno una quantità tale di significati che se ne trovano sempre di nuovi, e quindi riesci ad analizzare i temi che magari la volta precedente avevi tralasciato o che non avevi approfondito abbastanza. Inoltre, il contributo dei nuovi artisti in palcoscenico, il contributo delle persone nuove porta sempre un grande rinnovamento; quindi nonostante abbia già fatto quest’opera, la sento di fatto come un debutto.

Ci racconta la “sua” Cenerentola?

Ho immaginato la mamma e il padre di sangue di Cenerentola come dei letterati, degli studiosi molto benestanti che avevano una grande biblioteca. Quando in questa famiglia il padre muore, la madre si risposa con un uomo che ha due figlie, e vanno a vivere tutti insieme. Alla morte della madre di Cenerentola, la casa rimane quindi piena di libri, ed è per questo che la scena iniziale comincia con lei che legge una fiaba. Le due sorelle però sono molto gelose di Cenerentola, perché loro spendono tutti i soldi dell’eredità della madre per comprarsi i vestiti, le scarpe, i trucchi, eccetera.

 Questa è un po’ la dimensione nella quale si svolge l’opera. È un’opera di grande mobilità, sia nella trama che nella scena, perché ci sono i carri che si muovono, tutto è in grande movimento, come nella vita d’altronde. E in questo ambiente può succedere che si perda il contatto con la realtà. Magari succedono cose che credi siano determinate dal fato, mentre spesso dimentichiamo che non è il fato che determina la realtà, ma sono le persone che scelgono di essere in un modo piuttosto che in un altro.

Questa è la situazione d’inizio dello spettacolo; le cose vanno avanti, Cenerentola incontra il principe, che però è travestito da servo, perché non vuole che qualcuno si innamori di lui per i suoi titoli. E lei si innamora davvero del principe, ma pensandolo servo, e quando Cenerentola va al ballo, balla con un principe finto che è il servo del principe vero… e tutto questo è estremamente buffo, perché ovviamente il servo non sa comportarsi da principe.

Inoltre, io ho ritenuto di riprendere in mano i meccanismi magici della fiaba, quindi ho fatto apparire delle fate nella casa di Cenerentola, al posto di Alidoro, che seguono da vicino la vita della ragazza, fate che poi alla fine della fiaba e alla fine dello spettacolo migreranno verso un’altrove, uscendo dal teatro.  Ma Cenerentola alla fine acquisisce la consapevolezza che non sono le fate che l’hanno fatta diventare felice, ma che ciò è avvenuto grazie a lei stessa.

C’è quindi l’ingresso nel principio di realtà, e la perdita dell’innocenza infantile, che consiste nella conclamazione del fatto che lei quel percorso l’ha fatto da sola. Lo spettacolo, infatti, finisce con l’immagine di Cenerentola che, da sola, affronta il pubblico, affronta la vita, perché da questo momento in poi sarà adulta. Questo percorso lo fa anche nella fiaba, e per questo io ho una grande passione per Cenerentola.

Tutti, in fondo, facciamo questo percorso, che porta ad accorgersi che quello che ti succede è determinato da te stesso.

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