Cosa significa che “la tecnologia è religione”? A scanso di equivoci, va prima riconosciuto alla tecnica il ruolo di “faro” di una certa epoca, frutto di ricerche, di sforzi, anche per salvare, supportare vite. E va anche definito il significato di tecnologia, ovvero lo studio e la messa a punto di tecniche con risvolti utili all’umanità o a parte di essa.
Tuttavia, è un tempo insieme inquietante ed affascinante forse, dato che l’intelligenza artificiale, di cui l’umanità è creatrice, è una divinità che sembra permettere di farci onnipotenti, divini, in cui chi è abbastanza attrezzato, con la stampella sempre più robusta della tecnologia, è causa di tutto. Letteralmente con un battito di ciglia, si potranno forse accendere dispositivi elettronici.
È un tempo di confusione ed impazienza, in cui contemporaneamente “tutto è a portata di click” e tante definizioni, tra cui quelle di vita, umanità, sentimento, relazione sono messe in seria discussione dalla tecnologia che avanza e quindi dall’umanità. Ci sono tanti problemi nascosti dalla precipitosa brama di etichettare su basi arbitrarie e, piuttosto che veritiere, di opportunità; ciò apparentemente serve a godersi la vita e liberarsi impunentemente da ogni vincolo morale o naturale.
Un mondo che smaterializza, non per questo però rinuncia ad estendere senza scrupoli la mercificazione e quindi il profitto dei “pezzi grossi”, o di chi, miseramente o illusoriamente, se ne ritiene parte.
In tale contesto di smaterializzazione nel 2018 è avvenuto il matrimonio tra l’impiegato Akihiko Kondo e l’ologramma Hatsune Miku, e la fictosessualità sembra una tendenza non isolata, sintomo di bisogno di amore e accettazione incondizionati; bisogno per il cui appagamento pare venir meno quello di una relazione, non comprata (almeno formalmente), in cui due persone, dotate entrambe di sentimento, si confrontano, magari anche facendosi del male, avendo aspettative e (s)fiducia, talvolta gravose, ma vicendevoli invece che unilaterali.
L’analogia tra tecnologia e religione si verifica poi dal momento in cui attribuiamo alla tecnologia un valore di potere avulso dall’umanità, dal tempo, da un contesto scientifico di sperimentazioni ed errori, un valore che viene presentato però ad immagine e somiglianza, o su misura, dell’umano, come in qualche modo una divinità. La divinità diventa cioè qualcosa di comparativo, non di assoluto, che si può rispecchiare nella legge del più forte. La reincarnazione diventa inoltre tangibile, sebbene ampliamente discutibile, con la funzione, quasi religiosa, dell’assistente Google Alexa che, quasi per salvare l’umano dall’umana esperienza della perdita, della mancanza e della nostalgia, nel 2022 diventa capace di imitare la voce di vivi e morti, a partire dall’ascolto di un audio di almeno un minuto. Alexa sembra così volerci privare, si vuole credere invano, della consapevolezza della morte come ineluttabile passaggio, consapevolezza che ci fa vivere più autenticamente, ed umilmente. C’entra dunque l’illusione di diventare eterni, inattaccabili ed onnipotenti grazie al supporto dei dispositivi e alla loro archiviazione di memorie personali, come si vedrà parlando in particolare di social network.
L’espressione di equivalenza tra tecnologia e religione inoltre ricalca la nostra quotidianità, dal momento che spesso, senza conoscere i meccanismi algoritmici che regolano ogni effetto causato da un macchinario, ne siamo governati, ce ne fidiamo, crediamo per abitudine (o forse fede) che premendo un certo tasto, succederà qualcosa. Proprio come le antiche tribù di indiani d’America danzavano per la pioggia. Si penserà, in modo meno affidabile, meno fondato sulla scienza. Tuttavia il meccanismo è simile perché si ha a che fare con la magia, ovvero l’uso di un dispositivo, come il proprio corpo o i suoi prolungamenti come telecomando o cellulare, in cui il nesso di causa-effetto è offuscato da una fiducia quasi cieca.
Del resto, la comprensione profonda del nostro mondo tramite la cultura sembra poco gettonata, perché ci rende partecipi della cultura invece che utili consumatori obbedienti e gaudenti.
Le minacce dell’accensione di tanti dispositivi sono così ad esempio lo spegnimento del senso critico, la dipendenza da un algoritmo divino, la sospensione del tempo in un presente fatto di semplici ripetizioni procedurali per ottenere un certo effetto. Un presente in cui ci consolano serie televisive, storie Instagram, perché ci fanno fuggire dal qui e ora, ci tolgono il peso di dover vivere ogni momento con attenzione, perché tanto tutto sembra raggiungibile in modo estemporaneo con la tecnologia: siamo insomma liberi di procrastinare, finché non ci richiamano gli sporchi doveri della realtà tangibile.
Non esistono orari appropriati, esiste solo l’utente dalla mente destrutturata e devota a quella che il cantautore Gaber chiamò la “violenza dolce della moda”, nella canzone Quando lo vedi anche. Esiste l’oggetto, e le persone sono sempre meno importanti, se non quando oggettificate, schiavizzate, vendute, come continua ad avvenire da millenni. Esiste la tecnologia, e la scienza sembra un bene da relegare, per l’incolumità, la stabilità (l’inconsapevolezza e l’obbedienza) della massa, a poche cime, o sacerdoti. E come non ricordare qui la religione positiva agognata dal positivista Comte? La scuola sembra poi, almeno all’autrice, almeno nella maggioranza dei casi, mirare più alla formazione del consumatore passivo ed aggiornato, piuttosto che di chi, forse per incoscienza, anticonformismo o esibizionismo, vuole partecipare alla cultura, contribuire alla sua manutenzione e attualizzazione critica pur nei propri limiti. L’autrice del libro di cui si parla rintraccia questa tendenza didattica nelle riforme scolastiche, auspicando invece che tornino a mirare alla formazione di una mente strutturata, critica ed analitica, presente. In particolare, parla dell’importanza dello studio dell’informatica in un mondo che ne è così profondamente pervaso, più in generale del saper mettere alla prova la propria creatività e il proprio apprendimento piuttosto che eseguire le stesse procedure per farsi sempre più utenti ammaestrati come scimmie alienate, contente così: la Repubblica, constata amaramente, pare non volere cittadini consapevoli in materia di informatica, che pure ne impregna l’esistenza, ad esempio a partire dallo SPID.
E le scimmie sono contente di essere ammaestrate perché, in qualche misura, inscindibili da quell’istinto umano, troppo umano (direbbe Nietzsche), del bisogno di sentirsi uguali, o meglio insieme, agli altri. Bisogno di una forma laica di assoluzione, compromesso ed accettazione, che se in una certa misura può essere ingrediente fondamentale al vivere civile, quando degenera diventa la più soffocante bolla e forma di massificazione, deresponsabilizzazione ed appiattimento, ma anche discriminazione ed intolleranza per il diverso, per quei disertori o poveracci che ad esempio non usufruiscono di social network come tutte le persone normali ed affidabili.
La tecnologia crea così assuefazione, ripetizione procedurale e comunità, come la comunità amministra o crea religione. Ma la tecnologia crea anche solitudine, isolamento, straniamento fisico e mentale. Crea un apparente rifugio dal malessere, da questo mondo violento, ad esempio per gli hikikomori, coloro che si ritirano dal mondo e, se ci interagiscono, lo fanno tramite la rete; essi creano un ulteriore, triste parallelo tra religione e tecnologia, con particolare riferimento alle suore ritiratesi in convento per vocazione, per una vita purificata dalla bruttura di un quotidiano di aspettative e prepotenze.
Privarci della presenza attraverso il surrogato di messaggistica e chiamate, di cuffiette wireless, ci rende però soli e poveri spiritualmente. Presi da interazioni, ascolti magari diversi e simultanei, ci separiamo dal qui ed ora, da chi ci circonda fisicamente, ci disorientiamo. Sia in senso figurato, che letterale. Chi non cammina, magari attraversando la strisce, senza guardare il cellulare, senza ascoltare un vocale? Pochi, con tutte le conseguenze del caso (guardare dove si mette i piedi e non rischiare di sbattere contro un lampione o un’altra creatura magari assorbita da voci virtuali, assorta nella propria bolla fatta di preferenze esclusive se non autoreferenziali, in questo egocentrismo che ci inghiotte e ci fa inciampare).
Col suo tagliente spirito di osservazione, Chiara Valerio contribuisce quindi alla riesumazione dell’individuo sommerso da prodotti e servizi, da credenze e diffidenze motivate da mere mode, con il libro La tecnologia è religione (Einaudi, 2023). Rende infatti attraente e peculiare il suo modo di esprimersi la sua mordacia, la sua fermezza e coerenza, la sua profondità, insieme con una certa dose di impenetrabilità e mistero, almeno per chi non mastica linguaggio e nozioni come stracchino. Grande qualità del saggio è anche che, pur essendo ricchissimo di riferimenti di spessore culturale e morale, stimola ed incoraggia ad approfondire. Il saggio informa e forma, fornisce insomma spunti di riflessione preziosi o comunque non banali.
La scrittrice colpisce ancora col suo rispetto del linguaggio come ciò che ha potere di animare e annientare strutture e sovrastrutture, ponti e muri “a distanza”, senza cioè bisogno di diretta esperienza per percepire ciò che viene trasmesso e quindi immaginato. Perciò il linguaggio è insieme magia e tecnologia, fin dalle sue origini (altrimenti non sarebbe mai esistito il racconto, dunque nemmeno il mito, la religione, la cultura in quanto tradizione, l’apprendimento, nemmeno la descrizione di bisogni comunitari, fin dalla Preistoria; in questo senso, tra l’altro, la dimensione culturale è per noi quella naturale).
La studiosa definisce inoltre il linguaggio come l’unica tecnologia da cui ancora si pretende esattezza, dato che soffriamo per le parole sbagliate, nella nostra suscettibilità. Dato che, per quanto si ami parlare di inclusività, il linguaggio è per sua natura esclusivo: definire, nominare è sintetizzare, limitare, etichettare, e spesso mercificare; ogni linguaggio può così creare un dialogo davvero ferace solo se ne comprendiamo la natura esclusiva, per mitigarla autenticamente. Per il resto, vige in tecnologia una fluida indistinzione tra materiale e virtuale, cosa che renderebbe intelligenti i macchinari, perché capaci di comprendere almeno due verità una in opposizione una rispetto all’altra.
In ragione del suo passato da matematica, Valerio apre il libro con uno “pseudo-teorema”, il teorema del peluche. Ma prima di scandagliare l’enunciato di questa simpatica proposizione, è forse interessante ricordare una notazione personale dell’autrice che precede il teorema: ricorda come il suo nipote di cinque anni, nato e cresciuto circondato da dispositivi digitali, provasse ad ingrandire con le dita come si fa su uno schermo le immagini di un libro. Pur considerando la simpatia e l’ingenuità del gesto infantile, quindi anche contestualmente la sua normalità, è inquietante che da tale mancanza di distinzione tra realtà virtuale e materiale, tra realtà e rappresentazione, siano affette tante persone cosiddette adulte.
Tornando al teorema, enuncia che da bambini siamo abituati ad attribuire vita a tutto ciò che ci emozioni, che sia appunto un peluche o una piuma di piccione, nota l’autrice. E in qualche modo, anche nel contesto adulto, sembra che si attribuisca una vita propria, astratta ma quotidiana, alla tecnologia, alle sue costruzioni umanoidi; in tale accezione, la tecnologia è avulsa dalla scienza, processo partecipato dato che presuppone errori, fallacie logiche derivanti dallo stesso linguaggio che ci permette di creare vita, discussioni, un atteggiamento attivo invece di una sopita obbedienza. La scienza non offre una soluzione pre-confezionata, ma la ricerca di risposte, che talvolta può essere frustrante, ma ci avvicina all’umanità, al suo mettersi continuamente alla prova, quindi irrobustirsi e acquisire una vitale intraprendenza.
La scienza nelle sue modellizzazioni in genere figlie della matematica insegna, come altre discipline, ad affrontare, porre problemi, cosa molto più umana di comprare e “spalmare sul pane” soluzioni come la nutella, direbbe Gaber.
La scienza riflette l’umanità anche perché i modelli di cui si serve sono, sembra necessariamente, imperfetti, ma vogliono essere sempre più fedeli alla realtà nella sua complessità. Un grande insegnamento della scienza, e della vita in generale, è che non si può capire tutto subito, e questo spesso non è dovuto ad un’oggettiva incomprensibilità o incoerenza di ciò che non capiamo. È piuttosto infantile pensare che non dipenda da noi, ma sia colpa delle cose che non capiamo, se non le capiamo, proprio come è puerile pensare di doversi vergognare se non si capisce tutto subito: capire di poter sbagliare e fraintendere, di avere bisogno del confronto attivo col mondo e gli altri per crescere, è il presupposto per avviarsi ad una ricerca inesauribile di senso e di ricchezza spirituale.
Attualissima, e forse lancinante, è poi la speculazione sulla memoria e sul nostro affidarla a dispositivi, che, tramite l’IA, vogliono commuoverci, guidarci nel sentimento e nelle scelte, in modo subdolo. Si vuole sostituire l’umano con la sua trasmigrazione al digitale, alla macchine, e questo in particolare dalla seconda Rivoluzione industriale, ipoteticamente, per contrastare la sovrappopolazione, e in correlazione ad un indebolimento spirituale: il ricordo, il pensiero non bastano più, poiché servono relazioni, immagini concrete, sia pure inautentiche o dovute ad una macchina. La tecnologia, in particolare i social network, hanno il potere di fomentare l’egocentrismo, l’egoismo e quindi la debolezza spirituale, musealizzando e quindi oggettificando l’individuo, illudendolo di possedere la propria memoria, il proprio profilo. In verità l’utente usufruisce di un servizio che non gli appartiene, dato che, come è noto, le varie aziende hanno potenzialmente il monopolio totale sui profili, potendo persino disattivarli. Ed ecco quindi la piccolezza, la miseria di chi si crede potente e valente per esibirsi nei social, e non fa altro che vendersi come una fuggevole moda, non come una persona dignitosa. Il processo di disumanizzazione è qui evidente, anche considerando che i social sembrano spesso terra di zombi o marionette atti a compiacere gli altri, quindi il mercato. Zombi anche perché, nota la scrittrice, molti profili ancora attivi appartengono a persone il cui corpo è stato restituito inerte alla Natura, ma che continuano a vivere sui social perché “visualizzabili”.
Davvero forte è infine la riflessione dell’autrice circa lo studiare come forma di ribellione alla dittatura dell’univocità della parola, del ristagno del pensiero in luoghi comuni da sbandierare per essere accettati, o addirittura apprezzati. La formazione professionale di schiavi o oppressori è una parte incancrenita dello studio, che nulla spartisce con la sua natura genuina di esercizio a ragionare, comprendere e contestualizzare, accettando la metamorfosi come processo vitale e naturale, riconoscendo l’apparente inafferrabilità di verità assolute, avulse da un contesto (a meno della violenza, che rimane, sempre e comunque, violenza).
La scrittrice offre nel suo libro queste e tante altre riflessioni, di un’attualità impressionante, struggenti. Tuttavia, a volte sembrano prendere il sopravvento notazioni e posizioni personali, ricordi d’infanzia, che se da una parte sembrano autenticamente mettere a nudo l’autrice insieme nella sua eccezionalità e umanità davanti ai lettori, dall’altra potrebbero risultare elementi che tolgono compattezza alla trattazione, che forse la ingrassano, piuttosto che arricchirla. Sarebbe tuttavia ingiusto non riconoscere che alcune osservazioni sono attuali ed interessanti, pur ricollegandosi, o forse proprio perché si ricollegano, all’esperienza personale dell’autrice. Ad esempio, notevole è l’osservazione sulla competizione, sul cappio dei giudizi a scapito dell’essenza; cappio che soffoca ed offusca la nostra umanità, a vantaggio della differenziazione economico-sociale (verrebbe da dire, talvolta lecita ed inoffensiva, altre volte meno), a pro dell’incasellamento dell’individuo, per sua natura incomprimibile nello spazio di un’etichetta. Una volta incasellato, l’individuo si cuce addosso lo stretto ruolo di ingranaggio massificato, nell’illusione forse di farsi largo nella sua prigione.
Il lavoro è dunque un prezioso contributo culturale della Valerio in questa realtà così ambigua, in cui lo sforzo di capire sembra un inutile masochismo, ma è probabilmente l’unica via di liberazione; realtà in cui il conformismo ed il materialismo più gretti e superficiali, opulenti ed aridi, sembrano avere la meglio, in cui la religione più vissuta è la tecnologia.
Universo in cui però sembrano albergare grandi capacità, una seppur sopita profondità. Tale potenziale è sopito dal profilo su un social network che sembra dover sostituire ed inquadrare l’individuo nello spazio di uno schermo, solo, indifeso, inconsapevole. Ma l’individuo può rialzare la testa, esercitando il pensiero, ad esempio con la lettura di libri di impegno e spessore come La tecnologia è religione.