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Le interviste del Leo 109. Fiorenzo Baini, saggista e scrittore: raccontare Dante in prima persona

Dante è considerato uno dei poeti più grandi della storia, non solo italiana, ma mondiale. La sua maestria ha fatto sì che il suo lavoro e la sua persona vengano ancora studiati, e che ancora vengano sviluppate teorie sulla sua opera e sul significato di alcuni episodi, come per esempio quella che riguarda il passo che potrebbe riguardare Celestino V, di cui ci parlerà meglio Fiorenzo Baini.
Lo scrittore, nel suo nuovo libro Il mio nome è Alighieri… Dante Alighieri, si mette nei panni del poeta, e ci racconta, dal punto di vista di Dante, della sua vita, riportando anche le sue sensazioni e pensieri. Il volume è edito dalla piccola ma coraggiosa casa editrice La Vela (Lucca) che vanta un catalogo formidabile, con proposte spesso uniche e di altissima qualità.
Docente di lettere, Baini ha pubblicato vari saggi di storia dell’arte sul Barocco in Lombardia e in Puglia, ma anche saggi su vari argomenti, tra cui Una Apocalisse tragicomica (Ibiskos 2016) dedicato alla prima guerra mondiale. Abbiamo avuto il piacere di intervistarlo.

Nel suo libro scrive una “autobiografia” di Dante; a causa delle poche testimonianze a noi arrivate, sappiamo veramente poco di lui. Bisogna, quindi, provare una certa affinità per scrivere e trasmettere le sensazioni di chi conosciamo a malapena. Trova delle similitudini tra lei e il poeta? Riesce ad immedesimarsi in lui grazie a esperienze simili? Quanto di quello che esprime riguardo i sentimenti di Dante è tratto dai suoi studi, e quanto pensiero suo?

Dire che io possa sentirmi simile per esperienza sarebbe presuntuoso e ridicolo oltre
che non vero; però ho sempre ammirato in Dante la volontà di essere culturalmente
utile agli altri, soprattutto con la sua visione della cultura come mezzo per arrivare alla
salvezza e non come fine a se stessa. Non che io pretenda, come insegnante, di
proporre cultura per arrivare alla salvezza ma di sicuro, in comune con Dante c’è
almeno questo e cioè che non considero la cultura come un fatto fine a se stesso ma
un mezzo fondamentale per “non viver come bruti”. Ragion per cui e qui rispondo
anche alla seconda parte della domanda, Dante non ha voluto tenere per sé ciò che
conosceva attraverso il Convivio e la Divina Commedia e io, nel mio piccolo, nel mio lavoro e attraverso i
miei libri, provo a fare lo stesso.

Il Bene è un elemento ricorrente all’interno del libro: non parla di quello individuale, in quanto secondo Dante è fine a se stesso, ma di quello altrui, che lui identifica prima con quello di Firenze, poi, con l’espandersi dei suoi orizzonti che coincidono anche con l’esilio, con la Toscana e infine con l’Italia. In cosa lo identifica lei, adesso che la nostra realtà è molto più ampia di quella medievale?

La risposta alla domanda è complessa ma provo a renderla semplice
aggrappandomi anche qui all’esempio dantesco: oggi il Bene può essere solo una
libertà di pensiero che esclude i fanatismi del politicamente corretto, i dogmi
produttivistici di cui si nutre questo mondo (esemplificati nella strofa dei CCCP
“produci, consuma, crepa”), i problemi ingigantiti o non risolti ad arte per terrorizzare
ma la libertà di pensiero, che si è sviluppata in Dante nel corso dell’esilio, ha potuto
trovare luogo solo perché, cristianamente, egli era NEL mondo ma non era più DEL
mondo e questa credo sia la condizione necessaria per inseguire, ancora oggi, una
qualche forma di Bene.

Durante il racconto dell’esilio cita di quando Dante incontrò Petrarca, il “primo degli umanisti”, ancora neonato. Il sommo poeta non visse abbastanza per vedere l’inizio dell’Umanesimo, ma sembra accennarne nel Purgatorio, quando dice «Chiamavi ’l cielo e ’ntorno vi si gira, mostrandovi le sue bellezze etterne, e l’occhio vostro pur a terra mira», giudicando così i compagni di esilio, concentrati più su se stessi che sulla grandezza dell’universo. Se avesse conosciuto Petrarca e l’Umanesimo in maniera più approfondita, pensa che la sua opinione riguardo l’argomento sarebbe cambiata? 

Penso che in Dante si sarebbero scontrate due dimensioni: quella puramente
culturale l’avrebbe acceso di entusiasmo perché avrebbe conosciuto molto di più,
sia della latinità che del mondo greco e magari avrebbe “cristianizzato” Platone
prima di Marsilio Ficino ma non avrebbe, credo, accettato l’antropocentrismo
dell’Umanesimo. Dante, che accetta il primato di Dio, mette d’accordo l’uomo con
Dio stabilendo però i relativi posti, insindacabili, nell’universo e proprio per questo
è privo di dubbi mentre Petrarca è lacerato dal dubbio perché antropocentrismo
non è solo guardare l’universo ma è anche guardare a sé e quando lo sguardo è
troppo concentrato in sé è inevitabile essere scontenti. Dico una cosa: Petrarca,
nella vita, ha avuto tutto per essere più sereno di Dante ma non lo è stato mentre
sono convinto che quest’ultimo, anche se ha avuto un’esistenza più travagliata,
abbia vissuto con se stesso molto meglio.

Petrarca, oltre a essere considerato il primo umanista, è anche l’inventore della filologia, un’attività che consiste nella traduzione accurata dei testi antichi. Secondo la visione di Petrarca, essi però fanno parte di una società finita. Dante, invece li considera ancora vivi attraverso lui. Anche questa discrepanza è legata alle differenze Dante-Umanesimo?

Assolutamente sì. Petrarca sa che un mondo è finito e lo agogna nostalgicamente
in alcuni passi della lettera ai Posteri ma, per paradosso, Dante è più “classico”
perché per lui il passato è sempre presente ma dirò di più; se mi si concede il
termine, Petrarca è reazionario perché, come tutti i reazionari, mitizza un’epoca
che non c’è più, mentre per Dante il passato è anche il suo presente in quanto, per
lui, Arrigo VII e Traiano sono, in fondo, la stessa cosa dunque, in un certo senso, è
come se, ai suoi occhi, il tempo non esistesse ed è forse questo il motivo per cui
non solo non passa di moda ma è anche internazionale (colleziono Divine
Commedie in tutte le lingue e mi hanno appena portato una traduzione cinese). 

Se Dante non fosse stato poeta, a parere suo, Dio gli avrebbe concesso ugualmente l’opportunità di viaggiare nell’aldilà? È davvero solo grazie a Beatrice o Santa Lucia se gli è stato concesso questo viaggio, o il fatto che era poeta e poteva divulgare ciò che ha visto ha avuto un ruolo chiave nella scelta di Dante?

Dante per me viaggia proprio perché è un poeta e dunque non ha le barriere della
razionalità; probabilmente era più attento a certi messaggi del cuore che gli hanno
consentito di andare oltre la razionalità ma direi anche oltre la teologia. Faccio tre
esempi, uno da un lato e due da un altro. Jean Guitton è stato un ottimo teologo (tra
l’altro godibile pure da leggere, cosa rara) che disse una volta “ho passato più tempo
a pensare a Dio che a pregarlo” ma non ha mai potuto neanche concepire due
esempi di ispirazione divina quali hanno avuto invece due poeti e mi limito ai primi
che mi vengono in mente cioè : il verso di Novalis, di stupefacente bellezza “dünken
uns die unendlichen Augen, die die Nacht in uns geöffnet” ovvero, nella traduzione
migliore che ho trovato, “La notte apre in noi inesprimibili occhi spirituali” che lo
accompagnano all’eternità o Battiato, nell’intero testo de “L’ombra della luce”
dichiarando, tra l’altro, di aver trovato l’ispirazione attraverso una sorta di estasi.

Cosa ne pensa della teoria del grande rifiuto, riconosciuta come l’abdicazione di Celestino V?

Onestamente l’identificazione con Celestino V, anche se proviene dai migliori
dantisti, non mi ha mai convinto. Celestino NON RIFIUTO’ il papato, caso mai vi
rinunciò e lo fece poi PER VILTADE nei riguardi di chi? O Dante era perfettamente al
corrente dei maneggi di Bonifacio ma ne dubito o, come ho scritto, in quella figura
vedrei bene Ponzio Pilato (qualcuno l’aveva anche pensato) per una questione di
logica; egli fu, effettivamente, vile nei riguardi della gente di Gerusalemme egli,
effettivamente, rifiutò di servire la giustizia, dato che sapeva essere Gesù innocente
e infine il gesto di lavarsi le mani è un tipico esempio di ignavia, come dire “io non
c’entro, sbrigatevela voi”.

Cosa ne penserebbe Dante dell’italiano moderno? Coincide, almeno in alcuni aspetti, al volgare illustre?

Per Dante l’italiano illustre doveva avere le stesse caratteristiche del latino e
quando doveva esprimere un concetto elevato, non ancora esistente nella lingua
dei suoi tempi, lo traeva dal latino. Teoricamente il latino di oggi sarebbe l’inglese
ma solo in teoria perché il linguaggio italiano, a differenza dei tempi di Dante, è
oggi completamente autonomo e solo per provincialismo esterofilo non cammina
sulle sue gambe. Ridicola è stata la traduzione obbligatoria in italiano di termini
stranieri durante il fascismo ma altrettanto lo è l’adozione acritica da chi magari
parla male l’inglese; perché dire “mission” al posto di obiettivo? “Spending review”
al posto di “revisione di spesa” o peggio ancora “jobs act” al posto di “legge sul
lavoro”?

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