Nuovo emozionante film di Alex Garland, regista e sceneggiatore di Ex Macchina, Annientamento e Men. Uscito nelle sale italiane a metà aprile, il film tratta di un mondo distopico nel quale è in corso una guerra civile in America (in fin dei conti vicina a noi in maniera terrificante).
Garland non ci lascia intendere nulla sui motivi di tale scontro o da quanto sia in corso e tutto il film viene trattato da un unico punto di vista, cioè quello dei giornalisti di guerra. Loro sono i veri protagonisti che cercano di narrare una guerra sempre più cruda nella quale non saranno più solo spettatori ma proprio carnefici e vittime. Tutto il film gira intorno a un gruppo di fotoreporter interpretati da Kirsten Dunst (Lee), Wagner Moura (Joel), Stephen McKinley (Sammy) e Cailee Spaeny (Jessie). Il film inizia con la loro partenza verso Washinton, capitale nella quale sparano ad ogni giornalista a vista, con l’intenzione ben precisa di intervistare il Presidente di cui sappiamo che al terzo mandato ha accentrato i poteri sul Campidoglio, sciolto l’FBI, e acquisito tratti dittatoriali. Ovviamente il gruppo affronterà non pochi imprevisti, narrati in maniera così reale da credere di essere presente sul campo con loro.
Lo stesso regista ha reso noti gli schieramenti dopo l’uscita del film per chiarire le divisioni.
Ma cosa vuole raccontare Garland con questo film? Non poche sono state le letture che rimandano alla conflittualità tra Trump e Biden e l’attacco a Capitol Hill ma il regista volutamente ha creato scene ambigue per sottolineare che la guerra è uno stato di violenza in cui non si possono identificare buoni e cattivi. Il film riesce a mostrare in modo scioccante la violenza umana, tragicamente vera, che segue lo scoppio di una guerra. Si ha la percezione di essere sempre in movimento e in balia delle proprie emozioni empatizzando con i giornalisti, e proprio per questo nuovo punto di vista entriamo dentro il film, il quale è molto lontano dalla solita narrazione di un film di guerra.
Ma il lavoro del giornalista di guerra cosa comporta a livello personale? È una domanda legittima dopo aver visto Civil war in quanto si capisce quanto sia dura e perversa questa realtà da spettatore, la vicenda di Lee e pure quella di Jessie confermano la difficoltà emotiva di affrontare certe scene. Lee è una veterana della fotografia di guerra ma verso la fine del film si accorge del peso che ha portato sulle spalle per troppo tempo mettendo il dubbio il senso stesso della sua professione, e in un certo senso “passa il testimone” alla giovane promessa Jessie la quale è cresciuta nel mito di Lee e scatterà la foto del secolo, finiscono quindi per scambiarsi i ruoli. Si ha una situazione inziale in cui Jessie cerca incessantemente l’umanità che però la ostacola dallo scattare fotografie, a una scena finale in cui si sente sempre più a suo agio tra le coperture e le fila dell’esercito e quella scossa è invece Lee che dubita sul dovere di cronaca.
Un altro spunto di riflessione è cosa ci comunicano le immagini e se sono neutrali. Quale è la differenza tra spettatore e complice di una narrazione di parte? Anche qui il regista si muove in modo ambiguo, in equilibrio tra apologia eroica del giornalismo di guerra e l’opacità etica dei personaggi che si emozionano a far parte di uno scontro.
Tutte le riflessioni nascono dalla forza delle immagini e delle inquadrature spettacolari che richiamano gli scatti di Lee e Jessie e di conseguenza l’evoluzione antitetica dei loro personaggi.
È un film simile a videogiochi come The Last of Us per lo scenario post apocalittico che sconvolge la sensibilità occidentale per l’ambientazione americana, è come se il regista volesse farci uscire dalla nostra comfort zone e aprirci gli occhi sul fatto che sia una realtà molto vicina a quella reale, in un futuro speriamo non prossimo potrebbe divenire tale e colpire pure l’Occidente o la stessa America.