Roberto Riviello, scrittore ed ex insegnante, nasce a Potenza nel 1954, si laurea in Filosofia presso l’Università di Firenze e successivamente frequenta la Scuola di cinematografia “Ipotesi Cinema “diretta da Ermanno Olmi. Ha insegnato materie letterarie presso l’Istituto “G.Vasari” di Figline Valdarno, dove inoltre è stato responsabile del laboratorio teatrale per studenti. Ha tenuto corsi di sceneggiatura presso la Scuola Immagina di Firenze, per “Il Teatro della Sorpresa” e per conto dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Arezzo. Ha iniziato la sua attività di autore nel 1980 scrivendo numerosi sceneggiati radiofonici prodotti dalla sede RAI di Firenze sulla vita di celebri personaggi toscani. Ha scritto, sempre per la RAI, due serie di radiodrammi intitolati “Racconti in giallo“. Il suo sceneggiato radiofonico “Il poeta elettrico” è stato trasmesso sia da RAI Radio Uno che dalla Radio Svizzera Italiana. Nel 1998 ha scritto e diretto il film “Il più lungo giorno” sulla vita del poeta Dino Campana, prodotto da Pupi Avati grazie a un finanziamento statale per opere cinematografiche di interesse culturale nazionale. Il film, trasmesso anche da RAI UNO nel maggio del 2003, ha vinto il Premio del Pubblico ad Annecy in Francia, il Premio della Sceneggiatura al festival di Pescara e il Premio del Pubblico al festival del Cinema indipendente di Arezzo; inoltre ha partecipato a rassegne e festival a Parigi, Toronto, Amsterdam, Roma, Milano. Il suo testo teatrale “Liquido pub” è stato messo in scena dal regista Alberto Gagnarli nel maggio 2000 presso il Teatro Comunale di Figline Valdarno. Nel 2002 ha vinto con la commedia “Cavalieri Impossibili” il Fiorino d’argento per il Premio Firenze. Nell’estate 2004 ha curato la regia dello stesso testo, debuttando presso il Teatro di San Salvi a Firenze. Nel 2005 ha scritto e diretto il dramma “Isabella” sulla vita della poetessa Isabella di Morra, debuttando a Reggello in una rassegna promossa dall’Assessorato alla Cultura per la festa della donna. Nel settembre 2006 è stato aiuto-regista della Partita di Scacchi Viventi a Marostica. Nel 2008 ha scritto e diretto il dramma storico “Salò-me”, che ha debuttato al Teatro Garibaldi di Figline Valdarno. Nel 2022 ha scritto “Pazza Medea”, che ha scelto di mettere in scena insieme all’attrice fiorentina Laura Cioni, nel quale troviamo una Medea “post-moderna”, in un ambiente completamente diverso rispetto a quello “euripidiano”, una donna che ha cancellato dai suoi ricordi il delitto che ha commesso e che tenta di raccontarsi in un monologo. La sua ultima opera è “La sorella di Gregor Samsa”, una riscrittura dell’opera “Metamorfosi di Kafka” osservata dal punto di vista della sorella del protagonista. Da qualche anno collabora con il Premio letterario “Energheia” a Matera, presso l’Università della Basilicata, come docente in un laboratorio di scrittura per giovani provenienti da tutta Europa.
Abbiamo avuto il piacere di potergli rivolgere alcune domande sulla sua attività.
Che cosa rappresenta per lei Medea e perché ha scelto proprio questo soggetto?
Da un po’ di tempo ho ricominciato a interessarmi al teatro greco, sia a livello drammaturgico che a livello filosofico. Il teatro di Euripide in modo particolare è quello che mi sembra più vicino anche a delle tematiche contemporanee e quindi l’ho letto e lo rileggo ancora. Medea è uno dei cavalli di battaglia di Euripide, io però non ho ripreso la tragedia nel vero senso del termine, ho preso semplicemente il personaggio di Medea e l’ho scritto secondo una mia linea interpretativa: la mia Medea, interpretata da Laura Cioni, infatti vive nella contemporaneità, nella nostra contemporaneità, quindi è una donna attualissima, è un personaggio con delle sfaccettature e una psicologia assolutamente contemporanea, con quelle problematiche che oggigiorno sono di grandissima attualità. Questa è la parte che mi ha interessato particolarmente. Certo, è un personaggio femminile al tempo stesso, contemporaneo, ma controcorrente: non è una donna che subisce una violenza, è una donna che la violenza la fa, però al tempo stesso è una donna che si ribella di fronte a certi schemi di potere, che sono ovviamente di tipo patriarcale, a quel ruolo che appunto le sarebbe imposto. Non accetta di essere abbandonata, di essere messa da parte dopo essere stata usata. Quindi è al tempo stesso una donna tragica, perché compie un atto orribile di violenza inaudita, però è anche una donna che rivendica la sua dignità, il desiderio, la voglia di essere rispettata, mentre invece nella storia mitologica, poi ripresa da Euripide, viene usata, perché Giasone la usa per raggiungere lo scopo, il “vello d’oro”, e poi la abbandona quando trova qualcosa di meglio, ossia per sposare la figlia del re. La mia Medea però è una donna che sta in manicomio, quindi è una donna che vive questa realtà in una situazione di carattere manicomiale, infatti ho aggiunto la tematica psichiatrica e la cultura del Novecento, che si sviluppò in particolare con Freud.
Lei aveva affermato nella presentazione del testo che la sua Medea non è una ripresa del testo di Euripide come ha già detto, bensì una Medea postmoderna. Oltre quindi alle differenze di cui ha già parlato Quali sono quindi le altre differenze o le analogie, se ci sono, tra la sua Medea e quella di Euripide?
Sì, certamente le analogie ci sono perché la mia Medea rivive, racconta la sua storia, quindi la storia mitologica è assolutamente ripresa. Ma perché è una Medea post-moderna? Perché oltre a Euripide, ci sono i riferimenti alla cultura del primo novecento, quindi sicuramente la psicanalisi, Freud, la psichiatria, ma anche una certa letteratura e, in modo particolare, il mio riferimento essenziale è “la coscienza di Zeno” di Italo Svevo, dove forse per la prima volta in ambito letterario si parla di psicanalisi. Naturalmente si parla di un paziente a cui viene suggerito di scrivere un testo e infatti la mia Medea inizia il suo racconto facendo questo sulla scena, cioè provando a scrivere e dicendo che lei non ci riesce, cosa che invece Zeno Cosini nella coscienza di Zeno fa, scrive un testo, la propria autobiografia. Euripide quindi c’è nello sfondo, ma c’è anche il Novecento.
L’aggettivo “pazza” che importanza ha all’interno dell’opera?
Giusta domanda: l’aggettivo pazza serve proprio per introdurre la tematica psicologica, psicanalitica, psichiatrica. L’aggettivo pazza è la cifra della mia riscrittura della mia Medea che mi serviva da chiarire subito all’inizio. La mia Medea è collocata in una struttura manicomiale e interagisce, almeno così nel racconto, anche se poi non c’è presenza fisica, con un giovane psichiatra. Quindi, l’aggettivo pazza serve per chiarire subito che è una tematica di carattere psicologico o psicanalitico, quella con cui lo spettatore si troverà ad avere a che fare.
Cosa l’ha spinto a diventare regista e scrittore di opere?
Non lo so di preciso. Non c’è una motivazione particolare quando si scrive o quando si prova a rappresentare qualcosa, almeno nel mio caso. Non c’è stato un obiettivo, qualcosa che mi ha spinto. Sicuramente, la mia passione per la letteratura, la mia passione per il cinema, per il teatro, per la musica, per l’opera lirica, sono stati elementi importanti della mia formazione e quindi, forse, quello che mi ha spinto è un po’ il desiderio di…vivere, di provarci, anch’io a fare quello che poi mi piace vedere. Io sono uno spettatore, nel senso che mi piace andare a teatro e quindi forse la prima volta mi sarò detto: “Vediamo se ci riesco anche io”. Questa sarà stata forse la prima motivazione, provare a mettermi in gioco, provare a saltare il fosso, da spettatore a diventare attore, non nel senso della recitazione, ma di colui che è autore, più che altro. Poi le cose sono andate un po’ avanti. Mi sono accorto che ha funzionato, che la mia opera è piaciuta e quindi mi ha dato soddisfazione. Mi è piaciuto poi realizzarla in teatro oppure in qualche altra situazione che ho fatto e quindi ci provo e vado avanti nel mio piccolo.
Ha un suo metodo particolare per quanto riguarda l’ideazione di nuove produzioni? Quali sono i suoi punti di riferimento artistico?
Mi piace molto rielaborare e riscrivere su argomenti oppure su autori, come nel caso di Medea di Euripide. Di recente, il mio ultimo lavoro è una riscrittura della Metamorfosi di Kafka, anche quello è un monologo interpretato e rivisto dal punto di vista della sorella del protagonista. Il protagonista della Metamorfosi di Kafka è notoriamente Gregor Samsa e in questo mio ultimo lavoro, che si intitola “La sorella di Gregor Samsa” la storia viene raccontata dalla sorella, interpretata da Romina Bonciani, che è uno dei personaggi del romanzo, spostata però vent’anni dopo e ambientata in una Germania degli anni trenta, quindi durante il regime del nazismo. Mi interessa rivisitare quelli che sono dei capisaldi della letteratura del passato. Questo è un argomento che attualmente mi sta abbastanza affascinando. Quindi, da una parte, la letteratura, la tragedia greca, la mitologia, ma anche i classici del Novecento, come in questo caso la Metamorfosi di Kafka.
Sappiamo che ha insegnato materie letterarie presso l’Istituto Vasari di Figline Valdarno…
Si ho insegnato per molti anni materie letterarie all’Istituto Vasari di Figline Valdarno. Attualmente sono in pensione da qualche annetto e quindi mi dedico a tempo pieno alla scrittura, però ovviamente la mia attività di insegnante è stata lunga ed è stata quindi una parte molto importante della mia vita, che naturalmente rientra anche in quella che poi è la mia attività di carattere teatrale.
E proprio riguardo il suo periodo da insegnante, come ha vissuto il rapporto con gli studenti nel corso della sua carriera?
Questa è una domanda molto interessante. Guarda, curiosamente, ne stavo giusto parlando prima con una collega. Beh, devo dire che io nel corso dei miei anni ho avuto rapporti sempre buoni con i miei studenti, sia quando ero più giovane, ma anche quando poi sono diventato più anziano. Non so se questo è dipeso dal fatto che sono stato fortunato, perché ho trovato sempre dei bravi ragazzi o dei ragazzi interessati. Io non ho mai vissuto situazioni conflittuali o quelle che magari a volte si leggono sui casi di cronaca. Ancora ho dei contatti con dei miei studenti, che magari adesso sono diventati padri e madri di famiglia, che hanno dei figli, e qualcuno viene anche a seguire un po’ la mia attività. Ripeto, forse sono stato un insegnante fortunato, non so, ma io ho avuto sempre dei rapporti anche affettuosi con i miei studenti e sono stato ricambiato, devo dire la verità, nel corso degli anni, tanto che mantengo ancora delle amicizie con ragazzi che ormai hanno 30 anni e forse anche di più.
Ha qualche aneddoto della scuola che le è rimasto particolarmente impresso, che è stato per lei significativo?
Ci sarebbe da scriverci un libro sui miei aneddoti, dopo 30 anni, anzi, 35 anni di insegnamento di aneddoti se ne potrebbero raccontare veramente tanti. Ti posso semplicemente dire che forse uno dei momenti più importanti per me, che hanno dato una svolta anche alla mia esistenza, e questo effettivamente rientra con il discorso del teatro, è che prima di insegnare al Vasari ho insegnato alcuni anni alla scuola media di Reggello e lì un anno, quando ancora non facevo teatro, decisi di mettere in scena, con una terza scuola media, il famoso testo di Primo Levi “Se questo è un uomo”. Quella messa in scena, che noi poi facemmo anche con l’aiuto di alcuni miei colleghi, di una bravissima insegnante di educazione artistica che fece una scenografia magnifica, di un insegnante di musica che scrisse delle musiche originali per lo spettacolo e soprattutto la partecipazione molto sentita e accorata di questi ragazzi, quello mi ha segnato molto. Quello è stato un momento cruciale nella mia storia “artistica”. Forse è stato proprio da lì, da quella messa in scena di “Se questo è un uomo” che poi mi sono dedicato anche al teatro e ad altre attività al di fuori della scuola. È stato un momento molto importante che ricordo sempre. Poi esperienze teatrali le ho fatte anche al Vasari, sia chiaro. In seguito anche molto importante, avevo fatto il “Galileo” di Brecht, che è stata anche un’opera significativa con cui abbiamo partecipato anche a una rassegna al teatro di Rifredi a Firenze. Però quella prima volta lì, con il testo di Primo Levi, quello mi ha segnato molto e mi ha dato un input per andare su quella strada.
Cosa suggerirebbe a un giovane che vuole avvicinarsi a questo lavoro?
Innanzitutto di studiare. Di studiare a scuola, di leggere, di sfruttare le opportunità della scuola, quella è la prima cosa, perché la formazione letteraria, storica, filosofica è fondamentale secondo me se si vuole fare attività teatrale, sia come attore, che come autore, che come scenografo, ad un certo livello.
La cultura umanistica, letteraria, è fondamentale, è la base. Poi suggerirei di fare anche degli studi universitari e in seguito, eventualmente, dedicarsi all’arte drammatica, ma principalmente di avere una solida preparazione umanistica e letteraria. Infine cercare di aprire il cuore, perché bisogna avere anche una sensibilità particolare, quello si può fare aprendosi all’umanità, quindi cercando di comprendere gli altri, di comprendere anche quelli che possono essere i dolori della vita.