Il nuovo film del regista tedesco Wim Wenders è uscito nelle sale italiane il 4 gennaio e ha scalato le classifiche, superando al Box Office italiano a più riprese grandi titoli come Il Ragazzo e l’Airone di Miyazaki e Pare Parecchio Parigi di Pieraccioni. Un risultato non male per un film girato in soli 17 giorni, che doveva essere un documentario sul Tokyo Toilet Project, un progetto di riqualificazione urbana dei bagni pubblici nel quartiere di Shibuya, a Tokyo, ma che Wenders ha deciso di trasformare in un lungometraggio.
Il film è stato presentato in anteprima al Festival di Cannes 2023, dove l’attore protagonista, Koji Yakusho, ha vinto il Premio al miglior attore. Inoltre, Perfect Days sarà il primo film rappresentante del Giappone agli Oscar a non essere diretto da un regista giapponese.
Il film racconta la vita quotidiana di Hirayama, (Koji Yakusho), un sessantenne giapponese che conduce una vita frugale e semplice. Wenders dichiara che l’ispirazione per Perfect Days e la figura di Hirayama arriva direttamente da uno dei grandi maestri del cinema nipponico e mondiale: Yasujirō Ozu (Shohei Hirayama era il nome del protagonista de Il gusto del saké, un film di Ozu). Hirayama si alza prima dell’alba, compie una serie di piccole azioni che sembrano quasi rituali: si taglia la barba e baffi arrangiandosi nel lavandino della cucina, annaffia le sue innumerevoli piantine e si infila la sua divisa per andare al lavoro. Lavora come addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Shibuya, lavoro in cui si impegna meticolosamente e con una dedizione quasi esagerata. Per andare al lavoro usa un piccolo minivan, in cui ha tutto l’occorrente per pulire i bagni, che non sono i tipici bagni pubblici sudici e orrendi, ma delle piccole opere architettoniche altamente tecnologiche, progettate da diversi famosi architetti giapponesi. Sulla strada per andare al lavoro ascolta diverse videocassette di grandi nomi del rock, tra cui Perfect Days di Lou Reed, da cui il film ha ereditato il titolo. nella sua playlist di cassette ci sono anche i The Velvet Underground, Patti Smith, The Animals, Van Morrison, Otis Redding e Nina Simone. Durante il suo turno fa solo una pausa, in cui si rifocilla e scatta con la sua fotocamera analogica diverse foto alle fronde degli alberi. Dopo il lavoro torna a casa, va a farsi un bagno, va al suo bar o locanda preferiti per godersi una bibita o un pasto dopo una faticosa giornata di lavoro. Infine, la sera legge un libro e si addormenta.
Per cui, la trama è molto essenziale e minimalista, come il suo protagonista. Il ciclo si ripete ogni giorno, con qualche piccola novità e con le persone che il taciturno Hirayama incontra, e grazie a queste si sente per la prima volta la voce del protagonista, il suo modo di fare, la sua voglia di stare con loro e qualche accenno alla sua vita passata, ma forse anche a ciò che vorrebbe dal futuro. Non ci sono grandi azioni, tutt’alto, queste sono piccole, quotidiane, essenziali, ma grandi sono le emozioni che riescono a suscitare nello spettatore. Il personaggio interpretato impeccabilmente da Koji Yakusho è l’anima del film, lo ritroviamo in ogni fotogramma mentre si aggira per la città più popolosa al mondo, Tokyo, ma dove è comunque solo, distante dagli altri. Non lo sapremo mai per certo, ma dal poco che si può intuire sul suo passato, Hirayama ha deciso di stare da solo, di vivere in modo estremamente essenziale, di godere delle piccole cose, di concentrarsi sul momento. Lui stesso dice “un’altra volta è un’altra volta, adesso è adesso”, quasi come se fosse una massima zen e lui un fosse eremita. A Hirayama piace anche il suo lavoro. Un lavoro denigrato da molti e considerato inferiore, ma che è la rappresentazione della pulizia (il cosiddetto senso in giapponese) e della cura dei beni comuni e degli spazi pubblici, uno degli aspetti fondamentali della cultura nipponica. Hirayama è anche un osservatore. Osserva gli alberi, il cielo, scatta con la sua macchina analogica foto della luce che filtra tra gli alberi, apparentemente tutte uguali, dedicandosi al komorebi, che in sintesi è la contemplazione della luce che filtra tra i rami degli alberi. Osserva anche le ombre, mentre pulisce o mentre sogna, e forse perché lui è come un’ombra. Vive nel suo mondo, un mondo distaccato, analogico, musicale, cartaceo, fermo ai tempi della sua giovinezza, totalmente sconnesso da quello moderno e lui stesso ne è consapevole dicendo che “il mondo è fatto di molti mondi“.
Nonostante ciò, le sue giornate sono perfette (non a caso Perfect Days è il titolo del film), Hirayama sembra felice, ma forse non lo è davvero. Verso la fine del film afferma che “sarebbe strano se nulla cambiasse” e sempre al termine della pellicola ascolta Feeling good (lett. “sentirsi bene”) di Nina Simone, mentre si reca al lavoro, ma lui non sembra proprio star bene: piange a dirotto mentre guida, in pieno contrasto con la canzone. Ma Hirayama piange perché ha ottenuto il cambiamento che voleva, o si dispera perché questo cambiamento non c’è stato?
Perfect Days è un film che va letto nel profondo, interpretato, dove la necessità di riscoprire la semplicità dei rapporti umani e l’esigenza di custodire un senso di meraviglia verso le piccole cose vengono sottolineati al massimo livello. Un film che di certo non è pieno di azione ed energia, è lento, un film che ti trasporta nella vita solitaria di un sessantenne di Tokyo e per due ore lo spettatore vive con lui.