Al Teatro dell’Opera di Roma si apre la stagione con un titolo di repertorio che però da qualche decennio non era molto rappresentato in Italia: il Mefistofele di Arrigo Boito, capolavoro musicale e poetico nato dal genio del più grande degli “scapigliati”. Quella messa in scena a Roma dal 27 novembre al 5 dicembre è una produzione che riprende, potremmo dire perfettamente, il Dualismo che caratterizza la poesia del libretto; ma ahi noi non in senso positivo.
Questa produzione ha visto sul podio l’applauditissimo Maestro Michele Mariotti, che è risultato per tutto lo spettacolo, dal bellissimo Prologo in cielo fino al titanico epilogo, la vera colonna portante dell’Opera, riuscendo a tramutare in musica le intenzioni del compositore (nonché librettista) e dando forza alla partitura in maniera ineccepibile, proponendo un’interpretazione “wagneriana”, fresca ed al contempo fedele alla partitura originale; come testimonia la scelta di affidare ai fiati il compito di presentare il tema di Mefistofele invece che ai pizzicati dei violini (modifica che venne attuata da Toscanini nel XX secolo). Notevolissima la cura dei dettagli, con estrema perizia nel voler valorizzare ogni coloritura della buca d’orchestra e del palcoscenico, riuscendo a far emergere quelle piccole “delizie sinfoniche” di cui l’opera dispone e che nell’immaginario boitiano rappresentavano forse le vere e proprie protagoniste. Mariotti dimostra inoltre una mano fermissima, sia nel gesto elegante che nella capacità di reagire alle situazioni di emergenza e di tenere insieme buca e palco, sfida per nulla facile data la complessità delle partitura e le gradi masse di coristi e cantanti in scena (che possono eseguire in sincrono diverse linee melodiche come nel prologo). Di altissima qualità si sono rivelati anche i musicisti dell’Orchestra dell’Opera di Roma e gli artisti del Coro dell’Opera di Roma guidati da Ciro Visco, altre grandi colonne portanti (forse anche più dei cantanti) di quest’opera. Molto bravi anche i giovanissimi del Coro delle voci bianche del Teatro dell’Opera di Roma, che hanno saputo destreggiarsi tra contrappunti notevolmente complessi.
Brava anche la compagnia di canto (la recensione si riferisce alla rappresentazione del 3 Dicembre, con il secondo cast): Jerzy Butryn è un Mefistofele dalla portata più baritonale che da basso, ma riesce comunque a compensare con un’ottima intonazione ed una voce calda, molto divertente ed azzeccata la recitazione che riflette in maniera appropriata il Mefistofele beffardo ed irriverente delineato musicalmente da Boito. Buono il Faust di Anthony Ciaramitaro, anche se con qualche riserva: come la “stecca”nel difficile passaggio “Baluardo m’è il Vangelo”, peccato poiché fino all’epilogo si era dimostrato uno dei migliori. La migliore tra i cantanti è stata però Valeria Sepe, che con la sua Margherita prima ed Elena poi si è meritata il calorosissimo applauso del pubblico; il soprano mostra una grande bravura nel mantenere acuti limpidi ed espressivi, dimostrando un grande controllo della propria voce. Bravi anche gli altri cantanti, che hanno saputo contribuire in parte attiva al successo musicale della produzione.
Come in ogni dualismo manicheo vi sono però note dolenti, anzi disastrose. Non si capisce bene quale fosse l’intenzione di Simon Stone, regista cinematografico e teatrale, che ha voluto presentare una versione del Mefistofele dai tratti talvolta insensati e per nulla aderenti al libretto, risultando talvolta addirittura grotteschi, facendo quasi pensare che volesse prendersi beffa dell’opera. Stone propone una versione che vuole imitare le grandi produzioni contemporanee, affrontando maldestramente temi moderni e facendo larghissimo uso dello spazio vuoto e delle superfici piatte e monocromatiche: imperante è la presenza del bianco in tutte le scene (a cura di Mel Page, che ha curato anche i costumi) la cui provenienza rimane sconosciuta. Sin dall’apertura del sipario si viene proiettati in quello che sembra un tristissimo ufficio tutto bianco, con tanto di illuminazione dal soffitto, in cui si trovano appiattiti alle pareti gli angeli, vestiti o con calzoncini e maglietta o con delle toghe, tutto rigorosamente in bianco. Dall’alto guardano la scena le falangi celesti, che sbucano da delle finestrelle rettangolari sul fondale (che fondale non è) incappucciati stile “jedi” di Star Wars. I riferimenti alla cultura popolare contemporanea non finiscono con lo smartphone di Mefistofele nel prologo ma continuano anche nel primo atto dove, in un luna-park tutto bianco un gruppo di giovani travestiti da principi e principesse stereotipati stile Disneyland propongono una coreografia composta da balletti di Tik Tok ed alzate di gonna, mostrando ad un pubblico sorpreso l’intimo argentato delle dame. Nella versione di Stone inoltre il “frate grigio”, come scritto chiaramente nel libretto, diventa un clown tutto argentato, che nella seconda scena dell’atto si presenta nello studio di Faust sbucando da sotto la scrivania insieme a due ragazze in minigonna e vestito attillato. Ancora più incomprensibili e tragicomiche le scene del secondo atto, con una grossa vasca di palline colorate di plastica in cui le due coppie di cantanti che duettano si immergono per poi riemergere per cantare; risultato? Una pioggia di palline che durante l’esibizione si è riversata inavvertitamente in buca… con la felicità di arpisti, violoncellisti e cornisti. Confusionaria anche una terza coppia che si divertiva ballando in maniera poco aggraziata senza alcun nesso con il resto dello spettacolo o con la musica. Grottesca e deludente la scenografia del sabba infernale, con un maiale di plastica sgozzato sul momento, con tanto di rumore di plastica sfregata, ed appeso a testa in giù mentre sul proscenio cola il suo sangue, prontamente raccolto dal diavolo. Quello che colpisce poi è la perenne staticità del coro, che rimane per tutto il tempo schierato su dei gradoni e vestito come un esercito in bianco; forse un richiamo ai balilla di fronte al leader vestito con stivaloni, fascia e fez? Viene da chiedersi come tutto ciò possa avere dei risvolti sul piano lussurioso e movimentato tipico di questa scena. Azzeccata ad onor del vero la scelta di bruciare un globo di cartapesta tra le fiamme, sotto gli occhi di Mefistofele e Faust. Azzeccata inoltre anche la scena della prigione nell’atto terzo, con un ambiente spoglio caratterizzato solo da un vetro sul fondale che mostrava, con un’impostazione molto cinematografica, i flashback della vicenda di Margherita; in questa scena azzeccate anche le luci, rosse dal lato di Mefistofele e blu da quello di Margherita, a cura di James Francombe. Nell’epilogo più che mai la distanza tra buca e palco si fa siderale: se da un lato l’orchestra riesce perfettamente ad incanalare tutto il sentimento e la solennità del momento in un’interpretazione dai toni epici; dall’altro sul palco un Faust anziano inizialmente in sedia a rotelle, sdraiato e contornato da anziani e infermieri, muore; con Mefistofele che fugge dalla scena attraverso una porta sul retro. Non si può dire quindi sia stata una regia azzeccata, vanificando sotto certi aspetti il lavoro dei musicisti.
Apprezzabile dunque dar nuova vita ad un capolavoro spesso sottovalutato, ma questo è sicuramente il metodo sbagliato; se si pensa poi a quanto dettagliato sia il copione che Boito ci ha lasciato, in cui descrive per filo e per segno ogni sua intenzione. In conclusione potremmo dire quasi che Stone abbia seguito Boito almeno in una cosa, come scrisse lo scapigliato: “e non trovando il bello, ci abbranchiamo all’orrendo”.