Quando una voce melodiosa, con parole originali e toccanti, si fa veicolo di impellenti moniti alla coscienza, del sentire umano nella sua dimensione individuale e collettiva, si è davanti a un’irripetibile opportunità di maturazione intellettuale. In questi momenti capiamo come prendersi la responsabilità del proprio stare nel mondo sembri un peso, ma sia l’unica via per una vita spiritualmente prospera.
Sottolineare l’importanza della cultura come comune campo da coltivare risulta troppo spesso una logora filza di affettati e sterili giri di parole; ma a volte ne trapela il coinvolgimento, la volontà di rendere il pubblico partecipe di una prospettiva in cui ciò che accade è vagliato dal senso critico, piuttosto che accettato col sopore di individui manipolabili da qualsiasi moda, voce imperante, rinchiusi in un mortificante egoismo.
Di questo prezioso tipo è stato il concerto di Letizia Fuochi Nuda è la voce, svoltosi lo scorso 30 settembre con ingresso libero presso il Teatro Dovizi di Bibbiena, grazie alla collaborazione del Comune di Bibbiena, delle associazioni culturali Ideerranti e Milleforme.
Un pubblico interattivo e piuttosto eterogeneo ha ascoltato la testimonianza dell’urgenza espressiva della cantautrice; memore di quando da piccola ascoltava e cantava a squarciagola dischi di artisti quali Giorgio Gaber, di quando a nove anni le fu regalata la prima chitarra, sottolinea l’importanza della determinazione con cui un progetto necessita di essere affrontato per essere realizzato. Ciò vale nonostante chi le chieda del suo lavoro rimanga incredulo di fronte alla risposta, e in contrasto alla dilagante concezione dell’intrattenimento come smodato, egoistico divertirsi.
Le canzoni non pensate per brama di audience del resto “illuminano” le nostre ferite, colmano lacune, così da permettere l’armonia con ciò che si è, o impara ad essere. L’artista ci guida non solo tra note emozionanti, ma anche nella storia dietro di esse, arricchendone il valore. I protagonisti dei racconti, sentiti e struggenti, sono ad esempio intellettuali dissidenti nel regime dittatoriale di Pinochet, scappati per raccontare le violenze perpetrate, musicisti cui sono state rotte le mani, tolta la vita, con l’illusione di sopprimere il senso di giustizia. Ha poi cantato Dolceamaro, Piano piano, La misura maledetta dell’assenza, suoi brani permeati di un’irriducibile poesia. C’è spazio anche per Fabrizio De André, ricordato come fine interprete dell’umano e ispiratore di senso civico. La canzone del maggio, eco delle proteste di fine anni ’60, resta infatti un grido attuale contro un’indifferenza che corrode lo stare insieme. Impossibile poi dimenticare l’interpretazione di Li vidi tornare, brano cui sopravvisse di poco l’autore tragicamente scomparso Luigi Tenco, rifiutato da Sanremo, costretto a diventare il celebre Ciao amore, ciao … In origine, era il ricordo di un ragazzino ammiratore dei partigiani che partivano in nome della libertà, e salutavano i propri cari senza la certezza del ritorno. Ne rimane il ritornello in una canzone snaturata, più consona al mercato di allora. Attraverso l’indignazione di Eppure soffia di Pierangelo Bertoli, si riflette sull’umanità che cerca di sopraffare una meravigliosa natura, col rischio, sempre più palpabile, di rimanerne schiacciata; si passa poi all’ironia esorcizzante di Gaber, all’intensità emozionale di vita e opere della rivoluzionaria cantante costaricana Chavela Vargas. In chiusura irrompono la lucida constatazione di Todo Cambia, di Mercedes Sosa, di una realtà in continua evoluzione e con cui bisogna fare i conti, e l’avvincente spiritosaggine de Il gorilla di De André.
L’artista ci ha poi gentilmente concesso l’intervista, che segue la sua presentazione.
Fiorentina nel cuore oltre che di fatto, ha conseguito la laurea in Storia Contemporanea, lavorato undici anni come libraia, dedicandosi poi a un percorso che da ventiquattro anni segue una passione, attraversa i locali notturni per raggiungere il teatro canzone – genere che deve nascita e diffusione al cantautore Giorgio Gaber e allo scrittore Sandro Luporini, i quali negli anni ’70 iniziarono a comporre insieme monologhi e brani musicali, collegati da un macrotema di portata socio-culturale, alternati in uno spettacolo quindi organico. L’autrice mette qui in gioco le sue competenze canore, interpretative e compositive girando l’Italia, supportata dell’etichetta discografica Materiali Sonori.
Se ne annoverano laboratori con giovani e giovanissimi, carcerati, collaborazioni artistiche come quella con il chitarrista Francesco Frank Cusumano, i riconoscimenti di Insieme per la musica 2021, Trio Medusa e CESVI di Bergamo per gli artisti al tempo del Covid.
La pandemia ha infatti inasprito le difficoltà di chi per mestiere crea, diffonde cultura e coesione sociale, che passa in secondo piano nonostante il suo effetto benefico.
La sua opera comprende gli album Finito e infinito, Come l’acqua alla terra, Inchiostro, Fuegos y Chavela. Letizia Fuochi canta Chavela Vargas e Zing, pubblicato lo scorso anno. Allo stesso anno risale Nuda è la voce, raccolta di suoi monologhi e canzoni, con riflessioni di Frank Cusumano, del produttore discografico Giampiero Bigazzi e del docente di Lettere Massimo Seriacopi.
In base a cosa hai scelto il repertorio del concerto e come è collegato a Nuda è la voce, parole di una tua canzone nonché titolo di spettacolo e libro?
«Il repertorio fa parte del mio percorso, da interprete prima che autrice. I cantautori sono per me punto di riferimento e fonte di conoscenza».
Come hai vissuto il concerto di sabato?
«Sono abituata a questo tipo di eventi, ma suonare in un posto bello e accogliente come il Teatro Dovizi è una grande emozione, contribuisce all’ispirazione e al dialogo col pubblico».
Come si è evoluto il tuo percorso di studiosa, libraia e cantastorie, e come dialogano queste tue anime?
«Questi aspetti sono inscindibili secondo me, portano a un essenziale confronto. Studiare Storia, Letteratura significa collegarmi alla storia di ognuno, per poi poter condividere ciò che ho imparato, senza chiudermi in contesti accademici, trasmettendo anche emozioni».
Quali artisti ti influenzano di più e perché?
«Il personaggio per me più importante è Fabrizio De André, ma ce ne sono altri fondamentali: cantautori come Giorgio Gaber, Ivan Graziani, Chavela Vargas, Mercedes Sosa, poeti come Federico Garcia Lorca, Bertolt Bretcht, Pablo Neruda; questo perché hanno tutti cercato di restituire uno sguardo personale raccontandoci l’umanità, una realtà poliedrica, restando in mezzo alle persone».
Tra le tue esperienze lavorative quali senti più vicine, da manifesto al tuo operare, e perché?
«Dopo alcuni anni di ricerca storica ho lavorato a lungo in una libreria, dove ho capito che fa per me stare in mezzo a persone e canzoni, contribuire scrivendo. Tutto è connesso, ho messo la stessa passione nelle varie attività: facendo ciò che mi piace il lavoro è meno faticoso, anche se richiede continuo studio e aggiornamento. Ad esempio, il mondo ebraico è entrato nel mio lavoro. Alle medie mi sono ritrovata in una classe con maggioranza di religione ebraica, e vivere in questa prospettiva è stato molto istruttivo, regalando diversi punti di vista. Il loro modo di approcciarsi alla vita mi ha affascinata e ne ho approfondito la conoscenza, per esempio facendo amicizia con le loro famiglie. Poi all’università ho studiato storia e cultura ebraiche, da cui emergono ricerca della conoscenza e umorismo per alleggerire i momenti più difficili. Ho scritto anche uno spettacolo dedicato all’ebraismo, intitolato Neve di carta – il Canto della Memoria. Mi viene chiesto per il Giorno della Memoria, ma l’ho scritto senza l’intento di riportare la solita narrativa sulla Shoah, assolutamente terribile e da ricordare: attraverso lo spettacolo vorrei far capire come si è arrivati a ciò, raccontando con un canto corale la memoria di un popolo. Spesso però le ricorrenze sono le occasioni adatte a parlarne, simboli soprattutto per le nuove generazioni».
Quali messaggi, sentimenti da trasmettere ti contraddistinguono e chi, come vogliono raggiungere?
«Credo che ci sia un metodo giusto di vivere l’arte, le nostre fragilità: dobbiamo affrontare le sfide di ogni giorno con leggerezza, da non confondere con superficialità. Una buona via per resistere è cercare di sorridere, guardare alla realtà in maniera un po’ più dissacrante attraverso un’intelligenza allenata dalla conoscenza. Quello che voglio comunicare, soprattutto ai giovani, è che per me la memoria è il futuro, se promossa da cultura e responsabilità».
Nel tuo operare quindi si può parlare un disegno unitario e coerente, piuttosto che di una raccolta di suggestioni?
«Sì: cerco di rinnovarmi sempre attraverso le esperienze, ma ci sono dei temi ricorrenti, come il nostro esserci nel mondo, la protesta di fronte all’ingiustizia; tutti noi abbiamo dei limiti ma anche delle responsabilità, e per essere responsabili dobbiamo prima conoscere, poi fronteggiare gli aspetti più complicati della vita».
Cosa avverti della società odierna, e in conseguenza di tale percezione che ruoli assumono elementi a te cari come cultura, protesta, ironia …?
«La società contemporanea è molto sofferente, discriminatoria: ci sono persone molto potenti, altre molto poco. Trovare un equilibrio significa anche costruire dialogo e rispetto, che secondo me mancano molto; alcuni passaggi come la pandemia ci hanno chiusi, rendendoci più fragili e spaventati; molti si sfogano con la violenza, l’arroganza. Ma il teatro cura, insegnandoci l’immedesimazione nel prossimo e che desideri, frustrazioni si assomigliano; così siamo spinti a condividere una prospettiva più ampia e aperta al confronto. In occasione dei trent’anni dalla strage di Via d’Amelio ad esempio ho scritto lo spettacolo La cura. La cultura. Contro le mafie, tenendo conto che per sconfiggere l’indifferenza, quindi la mafia, l’ignoranza, occorrono buoni maestri: passare dalla cultura ci rende liberi e responsabili. Non ho l’ambizione di cambiare il mondo con la mia opera, ma attraverso il coinvolgimento emozionale posso stimolare a avere più cura della realtà».
Come vivi essere un personaggio anche pubblico, la relazione con gli spettatori?
«Non è una riflessione che mi appartiene. Tengo molto alla mia intimità: anche sui social mi racconto solo in funzione del lavoro. Cerco di essere consapevole e preparata, ma le sconfitte fanno parte del percorso e sono pronta a non ricevere consenso, pur di proteggere l’autenticità dell’emozione che condivido. È poi legittimo non sentirsi coinvolti da ciò che canto, ma desidero la reciprocità del rispetto che porto. Cerco di instaurare un rapporto interattivo col pubblico, ma ciò dipende anche dagli altri. Per ora mi sembra di esserci riuscita, creando occasioni di ritrovo, laboratori, senza mai mirare alla competizione, ma alla condivisione. Per me è molto importante che tutti partecipino secondo le proprie possibilità».
Cosa determina la tua creatività?
«Non scrivo mai sull’onda emozionale, ma dopo che ho meditato su ciò che mi circonda, senza perdere sincerità. Anzi, secondo me aspettare che i pensieri si chiariscano è il modo migliore per restituirli come li abbiamo sentiti. Del resto le emozioni impetuose possono confonderci».
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
«Ho tanti progetti, tutti frutto dei macrotemi di responsabilità, conoscenza, memoria, che danno senso al mio lavoro. Desidero portare avanti spettacoli per me importanti e che vengono chiesti – ad esempio, quello su Gaber, De André, Chavela Vargas, La Neve di Carta. Tendo inoltre a interessarmi sempre più dei temi della Resistenza e della Storia Contemporanea, cercando di raccontare la gente comune del Novecento attraverso la consapevolezza della responsabilità. Gestisco anche il podcast Labirinto900 del Museo Novecento di Firenze, in cui racconto la bellezza dell’arte, della memoria. La canzone può così diventare un mezzo per imparare la storia».