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Recensione di “Ágnes Heller. Un’etica in cammino” di Ornella Crotti. Come sono possibili le persone buone? Lucida analisi di una realtà precaria attraverso il pensiero di Heller, rilevante pensatrice dei nostri tempi.

La lettura del saggio Ágnes Heller. Un’etica in cammino (Mimesis, 2020) illumina non tanto perché dice cose nuove – in base alla sensibilità del lettore, la novità delle nozioni sarà percepita diversamente – ma perché parla di Bene, di Imperfezione umana e della necessaria solidarietà, accusando la trita ipocrisia di un fastidioso politicamente corretto. Dà valore a parole svuotate e pronunciate meccanicamente, rimuovendone l’alone fasullo. Insomma, in una vita in cui la Bontà è una maschera utile a autocompiacimento e affermazione di sé, in cui melliflui premura e candore celano pungente utilitarismo, la riflessione che offre il libro è preziosa: l’amore per il prossimo è spontaneo fino a un certo punto, e il mantra sull’imperfezione di questo mondo è vero, ma va oltre ogni comoda idealizzazione o svalutazione. È davvero necessario raffinare il proprio sentire, una miscela di emozioni, sentimenti, pregiudizi, dubbi, ragione che ci accompagnano – talvolta assillano. Ed è in modo laico e insieme spirituale che si svolge il pensiero di Heller analizzato. Si trattano argomenti che spesso sembrano terribilmente noiosi e consunti, ma che, finché vivremo, non perderanno di attualità; si sfata la convinzione che la morale sia un biglietto da visita un po’ da bigotti, piuttosto che un insieme di principi intriso di quotidianità. Ma prima di tracciare le linee essenziali degli importanti temi del libro, se ne presenta l’autrice e la filosofa cui è dedicato.

Ornella Crotti, PhD in Filosofia Etica e Politica, concentra la sua ricerca sulle affini filosofe Hannah Arendt e Ágnes Heller. Ha insegnato Filosofia e attualmente ha una collaborazione didattica con il Master in “Comunicazione interculturale e gestione dei conflitti” presso l’Università degli Studi di Verona. Ha pubblicato per Mimesis, oltre al libro in analisi, La bellezza del bene. Il debito di Hannah Arendt nei confronti di Immanuel Kant (2010) e, per Tre Lune, Hannah Arendt. La passione del pensare (2004).

Ágnes Heller (Budapest, 1929 – lago Balaton, 2019) è stata una filosofa e saggista ungherese di famiglia ebrea austriaca. La giovinezza è segnata dalle persecuzioni antisemite, per cui perde a Auschwitz il padre, colpevole di aver salvato famiglie ebree. Egli rimarrà una stella polare per la figlia, che iniziò all’amore per la cultura e il prossimo. Nel 1947 inizia il suo percorso filosofico da allieva e poi collaboratrice del pensatore György Lukács, sostenitore della Scuola di Budapest del dissenso verso i regimi dell’Est Europeo, in un’ottica marxista più umana e meno irrigidita dall’ideologia. Di qui scaturisce la posizione helleriana verso la teoria dei bisogni radicali, intesi come relazione dell’individuo nei confronti della vita in accezione etico-politica, dall’amore al conflitto. Pagò la libertà del suo giudizio, tacciato di opposizione al regime socialista, con l’espulsione dall’università e la censura dei suoi scritti nel ‘59, e nel ’73, dopo aver ottenuto il ruolo di ricercatrice accademica. I più recenti orientamenti nazionalistici dell’Est Europeo la inducono a una ferma critica e al trasferimento a Melbourne, poi New York, dove insegna sociologia e filosofia, spoglia di ideologie che avrebbero «ostacolato la sua libera scelta». La sua Etica della Bontà non ha infatti carattere prescrittivo, semmai di supporto alla riflessione per lo sviluppo individuale, alla stregua di valori umani sostenibili, quali rispetto, solidarietà.  Muore nel luglio del 2019 per un malore, avendo conseguito numerosi riconoscimenti per il suo impegno morale di cittadina cosmopolita, prima ancora che di filosofa. Impegno che a suo dire consisteva nel servizio in favore di una pluralità il più eterogenea e vasta possibile, attraverso la circolazione del pensiero. Indagando principalmente in ambito etico come giardino da coltivare, senza mai chiudersi al confronto, il titolo del saggio dedicatole è senz’altro calzante.

La trattazione delle tematiche si svolge in cinque passaggi per un totale di 93 pagine. Nonostante l’apparente esiguità, sintomo di una pregevole sintesi, la densità di concetti e spunti di riflessione è notevole e verrà solo parzialmente esposta nella recensione.

La premessa è una constatazione indimostrabile quanto innegabile: le persone buone esistono, ne possiamo vedere la luminosità, afferma Heller rifacendosi a Kant. È inoltre innegabile la necessità dell’etica, per quanto fascinosi dandy si sforzino di negarla. Essa è necessaria quanto la logica per affrontare questo mondo, altrimenti come ci muoveremmo senza avere la più pallida distinzione tra Bene e Male? Per quanto perverso, ognuno possiede un giudizio in tema, vive di conseguenza. Senza escludere la possibilità di molteplici soluzioni per un dilemma morale, ossia il pluralismo, la filosofa trova nel Buono, nel Vero e nel Bello i principi portanti e interconnessi della sua elaborazione. Ma Vero e Bello sono tali in misure diverse dall’accezione comune. Vero infatti è ottenuto dalla pratica, dal quotidiano, è consensuale ma non assoluto. Bello è un accordo problematico ma seme di speranza, un continuo confronto con e cura per sé e gli altri, che scaturisce dallo scegliersi persone buone e si collega al Buono anche per l’affine richiesta di giudizio da parte sia dell’Etica che dell’Estetica.

Nella varia ma coerente trattazione del saggio, è centrale anche il concetto di Etica della personalità, per cui possiamo sceglierci come persone buone a addentrarci in un cammino che non dà incredibili garanzie di successo, ma invita alla ricerca di un’armonia che non smette di evolversi, a un riscatto dallo shock di una nascita in circostanze che non abbiamo deciso. Heller si limitò così a indicare i pilastri in una verità intersoggettiva che in ambito etico hanno attraversato tempo e spazio. La Bontà ha il potere del perdono, supera l’autocompiacimento, l’interesse, è mossa da forze segrete che si manifestano in un campo piuttosto ristretto di virtù. Fu definita da Socrate come preferenza per un torto subito piuttosto che uno commesso, cucita dalla filosofa insieme con libertà e vita che forniscono il terreno appropriato allo sviluppo della personalità, con un conseguente coraggio civico portato dall’uomo buono e buon cittadino. Questi ultimi sono figure complementari e rispettivamente interpretate come chi vuole preservare la propria rettitudine e chi vuole prendersi cura del mondo affinché diventi la patria dell’umanità, assecondando quella che ha capito essere la sua missione, incaricandosi delle proprie responsabilità verso di sé e gli altri.

Queste le principali risposte che Heller dà all’interrogativo quali sono le condizioni per una persona buona?, basandosi sulla necessità di spiegazioni per il Bene, non per il Male. Quest’ultimo nelle distopie e nella storia si è dimostrato multiforme, capace di portare all’orrore che la filosofa liquida come enigmatico. L’Olocausto, i gulag, i totalitarismi non sono che conseguenze dell’attraente promessa di potere del Male, il quale rivela la sua miseria e banalità, in termini arendtiani, nel momento in cui indomabili malcontento e protesta ne rovesciano il regime di spersonalizzazione e violenza.

Di grande interesse e attualità in una società massificata quale la nostra è la contrapposizione tra individuo e particolarità, atteggiamenti che possono coesistere in una persona, data la sua irriducibile contraddittorietà; da essa nell’individuo nasce la necessità di dialogo compromissorio tra le sue parti contrastanti, nella particolarità quella di soffocare ogni incoerenza e sopire il proprio intelletto per sopravvivere, senza mai dubitare delle proprie consuetudini. L’individuo non riflette l’immagine dell’arrivista che per raggiungere il successo calpesta gli altri, per poi ritrovarsi arido e solo, ma è chi si sforza di distanziarsi da ciò che sembrano dogmi e di fronte all’evidenza di un proprio sbaglio si ridefinisce, sfruttando l’umana capacità di ricominciare. Nel suo sforzo di comprensione c’è l’accettazione di un eventuale errore, che però non frena la ricerca del proprio centro morale, importante da riconoscere, non tanto, utopicamente, raggiungere. C’è attenzione al giudizio altrui, senza bloccare il perseguimento del proprio progetto di umana elevazione, attenzione ai bisogni comuni di relazionarsi, insomma alla concretezza. Nella particolarità c’è invece la tendenza al livellamento che si rinchiude nella fiducia cieca, il morboso desiderio di ricevere sempre approvazione, incline a un’egoistica auto-preservazione e a quello che la filosofa chiama atteggiamento antropologico di base: l’angoscia per il diverso. Essa, mancando di senso critico, si fa facilmente trascinare dal fanatismo, un entusiasmo astratto che non vede l’umanità come obiettivo, ma la mera adesione all’ideologia che, per quanto intrinsecamente buona, per essere realizzata può portare alla distruzione di altre vite. Il nazionalismo inteso come religione è un moloch sintomo dell’entusiasmo astratto. La cura? Non solo seriosa riflessione, ma anche umorismo! Nessun fanatico è del resto capace di riconoscere il grottesco del proprio operato.

Ebbene, la vitale, arguta filosofa starebbe suggerendo che tutti potremo realizzarci come individui solidali? Potremmo. Ma questa non è che la sua utopia razionale, tanto quanto è utopico che chi si sceglie come persona buona lo diventi perfettamente. Nel suo sottolineare l’importanza della concretezza, della contingenza, la perfezione per lei non poteva che essere utopica.

Nel testo sono presenti molte opportune citazioni del pensiero helleriano e di altri saggi, più struggenti nelle ultime pagine particolarmente intrise di attualità. Qui troviamo un richiamo alla nostra Europa che si difende con inefficaci sensi di colpa e un politicamente corretto «di facciata», dietro ai quali si celano identità precaria, apoliticità del potere sottomesso alla finanza, adesioni a massacri recenti e ancora in corso (si pensi alle guerre nei Balcani di fine XX secolo, allo scottante conflitto Russia-Ucraina). Essi tradiscono la democrazia e l’universalismo di cui l’Europa e più in generale la civiltà post-moderna si farebbe portavoce attraverso la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Pezzo di carta ridottosi, si constata, al manifesto dell’«ipocrisia universale», essendo impunemente firmato da regimi che infrangono ogni diritto, seguendo l’interesse della Nazione, se non addirittura personale.

Struggente è anche il cenno alla drammatica realtà che ci sfugge, passandoci sotto il naso: l’isolamento, l’incapacità di sostenere un dialogo autentico cui porta il giogo dell’online, a prima vista comodo rifugio dall’offline. La sovranità della quantificabilità emozionale, cognitiva, totale è un altro tema scottante al passo del progresso scientifico, a cui sempre più ci affidiamo… insomma tante riflessioni mostruosamente attuali sono offerte dal libro come arricchimento culturale, forse anche terapeutico, in quanto esorta a vivere nella profondità e non nell’adorazione dell’opulenza.

Bisogna sapere prima di leggere che il libro è un saggio, non una raccolta di favole. È concettoso, ma non manca di chiarezza nel suo periodare scorrevole e coerente. Certo ci si può imbattere in riferimenti filosofici che chi non si intende di filosofia potrebbe trovare astrusi. Tuttavia, escluse tali sequenze, lanciarsi nella lettura del libro può essere un vero cammino nella propria psiche, può instillare la speranza in una svolta progressiva, consapevole della fragile, incoerente condizione umana, ma non arresa a un opprimente pessimismo. Nemmeno a un cieco ottimismo. Si invoca una speranza vigile, attenta a capire cosa succede intorno, che può sconfinare in insoddisfazione: la sofferenza umana potrà essere ineluttabile, oggetto di speculazione, ma è anche un appello all’indignazione, ad agire di conseguenza. Tale speranza nell’elevarsi ci sostiene nei momenti di sconforto.

Persino i più pigri converranno che la responsabilizzazione, l’interrogarsi (s’intenda, senza compulsive ossessioni) è un insostituibile mezzo di miglioramento di sé, in cui la coscienza e il dialogo riscattano le nostre pulsioni più orrende. E non si parla di quella coscienza melliflua e commerciale tanto bella da esibire, ma della coscienza autentica, individuale, che fa la differenza nella vita, rendendola più vivibile e meno di sussistenza.

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