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Recensione del libro “Classi pericolose” di Enzo Ciconte. Un’attenta analisi della povertà variamente criminalizzata e del complesso, torbido tessuto di intrecci tra economia e crimine, dal Cinquecento a oggi. Il focus sull’Italia.

Dopo una debita presentazione dell’autore Enzo Ciconte, in questo articolo si vuole recensire il suo ultimo libro Classi pericolose (Laterza, 2022), recentemente presentato presso la biblioteca fiorentina delle Oblate.

Nato a Soriano Calabro nel 1947 e laureatosi presso l’Università degli Studi di Torino a Lettere, dal 2013 insegna Storia delle mafie italiane presso l’Università di Pavia, ma la sua attività accademica comprende anche l’insegnamento di Storia della criminalità organizzata presso l’Università di Roma Tre e di Indagine e semeiotica del linguaggio presso l’Università degli Studi dell’Aquila.

Si è dedicato alla politica nelle file del PCI e successivamente del PDS, essendo stato deputato della Repubblica Italiana e consulente presso la Commissione parlamentare antimafia. Esperto conoscitore del fenomeno mafioso, è stato il primo a scrivere un testo storico sulla ‘ndrangheta in Italia, ‘Ndrangheta dall’Unità a oggi (Laterza, 1992). La sua opera tratta criminalità, banditismo e brigantaggio, la storica subalternità delle donne e comprende, tra numerosi altri titoli, Storia criminale. La resistibile ascesa di mafia, ‘ndrangheta e camorra dall’Ottocento ai giorni nostri (Rubettino, 2008), Banditi e briganti. Rivolta continua dal Cinquecento all’Ottocento (Rubettino, 2011), Storia dello stupro e di donne ribelli (Rubettino, 2014), Borbonici, patrioti e criminali. L’altra storia del Risorgimento (Salerno, 2016), La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza, 2018).

Di cosa parla Classi periolose?

Dopo una toccante introduzione che racconta la sventura di un barbone dei nostri giorni, il quale d’un tratto si vede impossibilitato a sdraiarsi sulle panche pubbliche della sua Verona per un provvedimento “in nome del decoro e dell’ordine pubblico”, a partire da questo valore quasi ossessionante e disumanizzante dell’ordine, l’autore riflette sulla presunzione di governatori nel corso dei secoli di affrontare la problematica dell’indigenza spolverandola, o meglio trattandola come mucchi di polvere da nascondere sotto il tappeto. Tuttavia, questa polvere sofferente costretta a non mostrarsi per non turbare i benpensanti (e benestanti!), ammucchiandosi cresce, e a causa di chi la confina là sotto, fa inciampare tutti! L’inefficacia della tattica si dimostra persino metaforicamente. Ed è così che si va meglio a specificare questa massa a prima vista informe, che invece cela dignità umana troppo calpestata. Vagabondi provenienti da uno spaventoso lontano, lustrascarpe, saltimbanchi, mendicanti, prostitute, neonati esposti, più recentemente contadini e operai, costituiscono alcuni dei numerosi profili di persone che lottano per la sopravvivenza in condizione di precarietà. Profili di povertà mutevoli col mutare della società, sempre sfuggenti e spesso pregiudicati dalle discriminazioni.

A partire dal XVI secolo, le cose cambiano per un crescente attaccamento ai beni materiali e la conseguente paura di perderli, in un’ottica proto-capitalistica ispirata dal nascente Protestantesimo, e dalla sua dottrina per cui la ricchezza materiale raggiunta rispecchia quella spirituale: gli indigenti non sono più immagine di Cristo come nel Medioevo, il soccorrerle “non spalanca più le porte del Paradiso” a chi fa carità: la loro (spesso supportata) immobilità sociale è meno utile di prima. I questuanti sono immagine di ozio, di degrado morale, forse nemmeno tanto bisognosi come vogliono far credere! Bisogna distinguere il vero mendicante dal falso, ergo distribuire quanto possibile licenze di legittimata indigenza, sospettare e aiutare ma non troppo, ergo insufficientemente.

Queste le convinzioni inoculate dalla cultura protestante, che si insinuano anche nel mondo cattolico; come documentato nel libro, ad esempio nel 1566 papa Pio V emanò un editto che «proibiva a’ curati e a’ religiosi il lasciar mendicar nelle loro Chiese». I poveri diventano così emarginati, dopo l’attenzione riservata loro nel Medioevo, colpevoli del proprio stato, considerati più inclini e corruttibili dei membri delle classi dirigenti – argomento dimostratosi molto discutibile. Generano preoccupazione nella società borghese dominante, che non riesce a gestirli, che perciò cerca di rinchiuderli in manicomi, ospedali, collegi, mascherando da premura per la loro condizione la repellenza scatenata dalla diversità della loro vita errante, instabile e la presunzione di colpevolezza suscitata dallo status, non tanto da crimini dimostrabili.

Variamente definite e individuate nel corso degli anni, da cinque secoli avvertite come pericolose e oziose, le classi subalterne si sono invece ingegnate per la fame a crearsi lavori retribuibili, come stuccare finestre, lustrare scarpe, spazzare camini, addestrare animali i più svariati, da serpenti a scimmie. Ma la fobia della non-produttività e dell’irregolarità in una società che progrediva ripudiava il diverso – come ahimè tante se non tutte le comunità.

Infanzia e giovinezza di bisognosi si sono sacrificate per secoli al lavoro, errante e poi, con l’industrializzazione, stabilitosi in ambienti insalubri e periferici. Con l’industrializzazione, sebbene in modalità differenti, i poveri sono ancora utili a (e sfruttati da) qualcuno, nota con disincanto e delusione l’autore. Ma nel libro non si trascura nemmeno il fenomeno del banditismo, a cui si sostituì con l’Unità d’Italia il brigantaggio e sul quale Ciconte è voce autorevole. I fenomeni del resto sono nati dalla sfiducia nella capacità dello Stato nel sostenere i soggetti deboli, i quali supportavano o incarnavano la figura di “Robin Hood”.

Nemmeno si trascura la condizione delle donne, spesso tacciate di stregoneria, prostituzione, inferiorità morale e intellettuale, costrette alla subordinazione, a quella disumanizzante e umiliante vendita del corpo.

Tutte realtà teoricamente esecrate dalla nostra Costituzione, specificatamente dal primo comma dell’articolo 3 per cui «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.»

Ma la difficoltà, la scarsa volontà di cambiare le cose impediscono di migliorare la situazione.

Il pregiudizio è stato un confortante compagno di viaggio nella storia umana per discernere il bene dal male, ma ha portato alle foibe, alla Shoah, al razzismo, a tanti orrori di cui l’umanità si è saputa macchiare; prova assurda ne è stata la giustificazione positivistica della criminalità come fenomeno determinato dalla genetica, non certo da fattori di ordine sociale e economico su cui le classi dirigenti potessero intervenire. Tesi ampiamente acclamata e sostenuta, anche con imbrogli, dallo studioso Cesare Lombroso. Così chi avesse ad esempio occhi, capelli scuri, orecchi ad ansa, fronte ridotta e naso adunco era sospetto … insomma delineando un “brigante calabrese tipo”, si era spiegata la ragione del crimine! L’inconsistenza della tesi non necessita altre spiegazioni, ma si ripresenta ancora oggi in varie forme.

Insomma, comode scuse hanno tacciato l’indigenza di mancanza di volontà di lavorare, di inclinazione al crimine, tanto per spostare i termini di un problema sociale a una questione criminale. E questo è uno dei fenomeni che l’autore individua e spiega nel suo riproporsi nel tempo.

Nel libro si spazia fino alle proteste (spesso inferocite dal bisogno) di operai e contadini del XIX secolo per una più equa distribuzione dei beni, alle problematiche dell’Unità d’Italia e di uno Stato liberale che si macchiò di repressioni sanguinose nei confronti di tali proteste, agli anni Cinquanta e Sessanta. Si parla anche della questione meridionale e veneta, di discriminazione e sfruttamento, che pure gli anni di boom economico celano di sfondo e alla base della società, e della conquista legislativa dello Statuto dei Lavoratori (1970) ottenuta tramite le proteste studentesche e operaie.

In epilogo si accenna alla difficile realtà odierna, segnata da varie crisi economiche tra cui la più recente dovuta alla pandemia, che ha accresciuto sensibilmente la diffusione della povertà: 1 milione di individui e 400.000 famiglie sono sprofondati nella povertà in Italia per il «virus delle disuguaglianze». Realtà segnata ancora dalla xenofobia, dalla fomentazione di pregiudizi verso immigrati che rubano lavoro e diffondono criminalità, quando, nota l’autore, in Italia in nessuna “classe” c’è immacolata innocenza, la mafia si è sviluppata in presenza di affari loschi e proficui, e infine gli immigrati presentano in genere disponibilità a lavori i più umili e scartati dagli italiani.

Significativo il finale che, a conclusione dell’analisi di problematiche che assillano masse di individui da secoli, non può certo contemplare un “E vissero felici e contenti”, ma suggerisce piuttosto un’esortazione a prendere di petto la situazione di disuguaglianza d’ostacolo al progresso dell’intera società, alla ricerca di una necessaria «strada nuova, forse non ancora tentata», diversa dai precedenti approcci di carità, repressione e mostrificazione verso la povertà, dimostratisi non risolutivi, anzi…

Così termina il racconto focalizzato sull’Italia, senza trascurare altre realtà influenti per il paese, quella anglosassone ad esempio.

Avvertenze

Libro lungo, succoso, molto documentato, serio, descrive passaggi storici complessi e non si può pretendere di leggerlo come svago. Ci sono riferimenti a episodi storici talvolta sommari che potrebbero rimanere difficili da comprendere a un pubblico che di storia non si intende; tuttavia i fenomeni principali sono spiegati con grande chiarezza, quasi in tono confidenziale, a ribadire che Ciconte ha scritto il libro pensando a un pubblico non specialistico, di giovani possibilmente, come egli auspica nella prospettiva di un futuro in cui «si cambia la società per combattere la povertà».

Allora perché investire tempo e energia nel leggerlo?

È vero, non è un romanzo rosa. Tuttavia è scorrevole e tale scorrevolezza e accessibilità linguistica, oltre che la grande attualità e importanza dei temi affrontati, rende piacevole e rilevante la lettura, ne fa perdonare la lunghezza – da non confondere con prolissità! – e persino qualche passaggio più complicato. Lettura “rilevante” non nel senso che, letto il libro, si acquisirà una licenza di saccenteria e superiorità intellettuale da rinfacciare e difendere altezzosamente. Ma nel senso che il libro è un motore ispirante al cambiamento necessario al miglioramento, dà speranza nella mutabilità della situazione comoda a chi vuole emergere a discapito altrui; offre anche strumenti per capire gli errori del passato da non replicare, le trame di una società che col trascorrere del tempo si addentra in un crescendo spaventoso di connessioni (criminali), stratificazioni, insomma di complessità.

Aggiunge pregio al libro la vastità di concezione che, ahimè per chi si spaventa alla vista di libri corposi, si riflette nelle quasi trecento pagine di racconto. Ma il libro rimane consigliabile appunto perché lo scrittore ha saputo raccontare con partecipazione, e non riportare acriticamente e freddamente, la storia di cinque secoli circa l’inedia, le sue varie, ma spesso interconnesse interpretazioni, le sue implicazioni nel mondo dei ricchi, borghesi, aristocratici, politici, industriali … Tra l’altro è raro trovare documentazioni così esaustive sulla povertà, che rimane protagonista: le guerre, i grandi personaggi susseguitisi nel periodo preso in analisi rimangono sullo sfondo. L’inedia genera spesso analfabeti, o comunque coloro a cui manca, viene tolta la voce, perché potenti spaventati dalle loro rivendicazioni di diritti ne filtrano le azioni, l’essenza, per giustificarne l’esecrazione e il confinamento.

Nonostante qualche pecca, che può essere più o meno avvertita in base alla sensibilità di chi legge, è dunque consigliata la lettura del libro nell’obiettivo comune – o che si auspica tale – di capire fenomeni che si ripetono, forgiare menti fiduciose nella possibilità di un domani più giusto, meno facili agli sgambetti della corruzione e di una realtà difficile, spesso illusoria; menti che sapranno analizzare e ragionare sui fenomeni sociali con minore passività e maggiore consapevolezza, guardando al passato in funzione del presente.

L’importanza del libro è infine nella sua riflessione sulla colpevolezza di un’egoistica e consumistica indifferenza, e ipocrisia.

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