Il primo giugno presso il Palazzo del Quirinale, oltre al concerto dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta da Speranza Scapucci, si è tenuto il discorso del Presidente della Repubblica Mattarella. Senza voler nulla togliere al concerto, diretto per la prima volta al Quirinale da una donna, e nemmeno alla tradizione del cerimoniale del giorno seguente, la Festa della Repubblica, in cui le Frecce Tricolori attraversano iconicamente il cielo sopra Roma, in questo articolo si intende focalizzarsi sul discorso del Presidente e le tematiche che ne emergono. Si lega poi l’esortazione e l’elogio della solidarietà e dell’impegno al conseguimento di obiettivi comuni, al clima di indolenza diffuso nella nostra quotidianità, esplorandone le cause, le conseguenze e come uscirne. Le eccezioni ci sono sempre, ma come fa una società tendenzialmente apatica, sfiduciata e stanca a raggiungere il bene comune, se l’individuo non riesce a raggiungere il proprio? Senza toni inquisitori, si presenta il bisogno di responsabilizzazione verso di sé, gli altri e di scarcerarsi dalla prigione dell’apatia, dato che la tendenza è forse comoda, ma a lungo andare controproducente, nociva per tutti (per la stessa celebrata democrazia, viste le scarse partecipazioni alle elezioni…).
Il primo cenno del discorso è, ovviamente, al motivo della celebrazione: lo scorso due giugno è stato il settantasettesimo anniversario di quel referendum nazionale che dopo la Seconda Guerra Mondiale ha stabilito che l’Italia sarebbe stata una Repubblica, a discapito della trapassata monarchia (e dittatura), e sarebbe stata scritta dai padri costituenti eletti in quella stessa occasione la sua Costituzione, in vigore dal primo gennaio del 1948 .
A seguire, il ricordo della recente disgrazia che insieme cattiva predisposizione e gestione del territorio dal punto di vista idrogeologico e una pioggia violenta hanno causato alla popolazione romagnola, e la gratitudine per la solidarietà dimostrata con parole e fatti da cittadini e stranieri.
La menzione, nient’affatto casuale, alla Costituzione italiana è stata in relazione all’articolo 11, in particolare a quel primo comma che risuona, o almeno dovrebbe risuonare, come un drammatico richiamo nella nostra coscienza: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Nel discorso si fa esplicito riferimento al conflitto tra Russia e Ucraina, in cui l’Italia svolge, volenti o nolenti, il ruolo di fornire armamenti, di cui quotidianamente sentiamo episodi raccapriccianti; ma il messaggio non può non chiamare in causa tutte le guerre che devastano questa famiglia umana, divisa dall’egoismo e dalla sete di potere, dalla scarsa attenzione nel preservarla; tale famiglia è così trascurata che parlarne sembra da languidi, inconsistenti o ipocriti figli dei fiori. Percepirne il significato, un’astrazione. Sono 59 i conflitti in corso nel mondo, tra cui alcuni denominati “a bassa intensità” (designati con l’acronimo inglese LIC, low intensity conflict) , come a sminuirne la gravità perché avvengono in modo più limitato rispetto ad altri, farebbe forse esclamare un’appassionata polemica.
Risulta un elenco di conflitti tristemente lungo, da cui evinciamo che il principio enunciato dall’articolo 11 è tutt’altro che rispettato, in questo mondo che il progresso ci fa erroneamente credere meno barbaro.
Tornando al discorso, esso sottolinea i danni che arreca anche dal punto di vista economico, oltre che umano, il conflitto tra Russia e Ucraina, “ripercuotendo sull’ordine internazionale pazientemente costruito dopo il 1945”. Viene da chiedersi, con scetticismo, se c’è mai stato un ordine internazionale basato sulla pace … tralasciando questo dubbio forse irresolubile, si ribadisce la convinta adesione ai piani dell’Unione Europea e della NATO in sostegno dell’Ucraina invasa, nella ricerca di soluzioni giuste e che assecondino una pluralità di interessi.
In chiusura, non si possono omettere i temi della migrazione, dell’impegno nella protezione dell’ambiente e dei diritti umani, nemmeno quello delle recenti tensioni nei Balcani, dovute principalmente agli attriti interni al Kosovo, scisso tra una minoranza serba tendenzialmente nazionalista, e una maggioranza albanese.
Potrebbe sorgere legittima e spontanea la domanda: come si concretizza l’impegno che la Repubblica, e quindi i suoi cittadini, si prefiggono? Tappezzando il calendario di giornate che ci ricordino una tematica rilevante e poi, in linea generale, dopo lo spazio di una chiacchierata in merito, riassopendosi nel proprio piccolo, sembra certe volte essere la tendenza per la maggiore. Esistono politiche, e anche associazioni indipendenti che si occupano dei settori enunciati, fra cui ambientaliste, in difesa dei diritti umani, che col loro impatto mediatico e la pressione sui governi spingono all’attuazione di leggi che promuovano la tutela di un certo tipo di benessere. Gli strumenti di queste ultime sono firme, manifestazioni, richiami alle istituzioni affinché si agisca per il fine prefissato.
Ma se gli strumenti non si usano, i discorsi, le preoccupazioni sono inutili. Del resto, suggella il discorso del nostro Presidente l’affermazione “L’Italia continuerà a lavorare affinché l’Unione europea possa essere sempre più attore capace di proiettare pace, stabilità e sviluppo a livello globale”. Allo stesso modo, nonostante persino in democrazia ci sentiamo alle volte moscerini di fronte alle trame delle forze politiche, dall’essere attori della propria vita e non marionette può svilupparsi qualcosa di più, la possibilità di intervenire davvero in sostegno di chi ci è vicino, se stessi compresi.
Serve quindi partire dal singolo per intuire quale sia il blocco che ci impedisce di agire quando ad esempio incontriamo persone in difficoltà, e in massa si fa finta di niente. Bibb Latané e John Darley, psicologi sociali statunitensi, avanzarono negli anni ’60 la teoria dell’effetto bystander (spettatore, in inglese). Secondo essa, di fronte a eventi che riguardano una collettività, si ha la sensazione che la responsabilità di migliorare la situazione si riduca distribuendosi equamente tra gli spettatori, che nella speranza di intervento altrui, dato quasi per scontato, non combinano niente. Inoltre, la tendenza a sottovalutare la gravità è data spesso dalla volontà di apparire calmi in pubblico e dalla contagiosità dell’atteggiamento, perché si cerca in genere di capire come comportarsi guardando le reazioni altrui. L’assuefazione a tale meccanismo porta, oltre che al conformismo più imbarazzante, a una sorta di apatia generalizzata, cioè una mancanza di passione, di voglia di fare che non è una semplice indole alla pigrizia, ma scatenata, se non da traumi al lobo frontale, malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, anche dalla paura del giudizio, dall’ansia, da delusioni mal digerite. Questi ultimi fattori generano quindi paura di agire e procrastinazione, che vanno a creare un circolo vizioso di bassa autostima, senso di inadeguatezza e incapacità a loro volta complici dell’inattività. L’apatia è uno stato psicologico che fa sembrare tutto noioso, magari anche attività prima reputate interessanti. Nei giovani è in parte spiegata dal dispendio di energie nella formazione fisica e mentale, ma ciò non può coprire una malsana, eccessiva inerzia. Uscirne non è difficile se si capisce di esserci dentro, e c’è la premura di farlo! In certi casi sono necessari percorsi di psicoterapia, per evitare la degenerazione in stati depressivi, in altri basta cercare nuove attività, nuove e più stimolanti ragioni per svolgere il proprio dovere, riprendere i contatti sociali, e rompere le catene del timore di esporsi, di sbagliare. Timori che vanno superati per vivere e progredire, ma sono fomentati dalla tendenza al livellamento e all’invidia, insofferenza invece che emulazione di atteggiamenti di successo, che richiedono però sforzo.
La conseguenza di tale timore che immobilizza è inoltre un vortice di insoddisfazione che chiama insoddisfazione, oppure quell’intelligenza senza sentimento di cui lo psicoterapeuta e studioso Umberto Galimberti condanna le conseguenze, le quali si ricollegano in extremis anche alla banalità del male di cui la filosofa Hannah Arendt avvertì le atrocità. Ovvero, agire con lucidità impressionante e con ancora più impressionante assenza di consapevolezza di danneggiare gli altri, nell’indifferenza.
L’apatia è senz’altro stata favorita dal confinamento in casa della lunga quarantena, che ha provocato l’esasperazione dell’istinto egoista in grado di vedere solo i propri bisogni. La competitività generalizzata scoraggia l’inserimento, come il non riuscire a aderire ai modelli di perfezione che la comunità del “Mi piace” sembra imporre.
Questo disagio è tristemente testimoniato dall’incremento del 75% delle tendenze suicide in Italia nell’ultimo biennio.
Perché i discorsi sull’impegno e il sostegno reciproco facciano davvero breccia, non diventino meri argomenti da conversazione, deve quindi partire una lotta all’apatia da dentro, trovare motivazioni autentiche e non basate sull’ipocrisia, convincendoci dell’importanza di costruire un benessere comune, senza il quale di benessere non si può parlare.