“Ma no, ma no, no no no no no no no no, no! Signor Leonlab per pietà!”. Parafrasando la frase d’esordio del commendator Borgalli, questo è ciò che verrebbe a tutti noi in mente a sentir parlare di Pirandello. “Ma non è possibile, ancora Pirandello a teatro?”, “Ma è passato più di un secolo”, “Basta, non se ne può più”: è possibile dire di tutto, ma non che le opere del drammaturgo siciliano non siano più attuali e, in particolar modo, quella che hanno portato in scena i ragazzi e le ragazze del Laboratorio teatrale del Liceo scientifico Leonardo da Vinci di Firenze (Leonlab) gli scorsi 3 e 4 maggio. I Quaderni di Serafino Gubbio operatore, opera da cui è tratta la versione teatrale di Stefano Massini Si gira! in cui i giovani attori si sono cimentati, è tutt’altro che uno spettacolo antiquato o sentito ormai come anacronistico: è una commedia-tragedia che riflette sull’uomo, sulla visione che ha di sé e degli altri, insomma sulla vita di tutti noi, uomini e donne del 2023, che, a 98 anni dalla stesura del testo originale pirandelliano, possiamo sempre e comunque rispecchiarci nella mania di controllo del regista Coco’ polacco e della sua assistente Nennella, nella determinazione del commendator Borgalli, nella volontà di affermazione di sé della giovane Sesè, nella disperazione e rabbia del barone Aldo Nuti, nello spietato realismo della signora Nestoroff, nell’alienazione di Serafino.
La trama dello spettacolo non è alquanto complessa: nonostante sia stato avvertito dal saggio Simone Pau detto il Professore, Serafino, per ottocento lire al mese, decide di entrare comunque a lavorare come operatore di macchina nel cinema; “il grande inganno” lo fagocita subito, appena si presenta alla Kosmograph, la casa di produzioni cinematografiche in cui viene assunto, ed entra quindi a far parte dei suoi ingranaggi. Nella grande macchina del cinema, che segue ritmi frenetici, è sballottato di qua e di là fra attori, come la signora Nestoroff o Carlo Ferro, con continui problemi e vicende che lo riguardano anche direttamente ma che, in realtà, non lo tangono. Serafino è essenzialmente un osservatore – “Io vi osservo. Io vi guardo. Io vi studio, gente, in ogni dettaglio” dice egli stesso per presentarsi al pubblico – e tale vuole rimanere. Egli analizza attentamente, con distacco, ciò che accade intorno a lui: persone che, se poste davanti a quell’infernale macchina, diventano altro da sé; persone che vogliono vivere sempre di attimi eterni e che pensano che, per vivere, davvero bisogna inevitabilmente fingere. La Kosmograph diventa, insomma, un grandissimo “carrozzone” di un’umanità snaturata, la quale trova nella macchina non un appoggio, bensì un ulteriore elemento divisivo in una società immersa sempre in un costante movimento, un divenire persistente che l’operatore alias Pirandello vede come un oppressivo vortice in cui l’uomo non apprezza più sé e il mondo, costretto invece a correre senza un attimo di riposo, senza soffermarsi su nulla.
I ragazzi e le ragazze del Leonlab, capitanati dai bravissimi registi Duccio Baroni e Gabriele Giaffreda, nonché dalle immancabili professoresse Livia Morescalchi, Chiara Masini e Lucia Manfredi, sono riusciti a rappresentare tutto ciò splendidamente, con ottime interpretazioni della psicologia dei personaggi e assumendo dei toni giusti e comunque adeguati alla cosiddetta, come viene espressa in termini tecnici, “urgenza” del personaggio, cioè l’attività che preme compiere al personaggio stesso in quel determinato momento. Ottima la scelta dei costumi indossati dai giovani attori e molto curata, anche se minimale, la scenografia e belli soprattutto i realistici oggetti di scena, realizzati egregiamente dagli studenti e le studentesse del Liceo artistico Leon Battista Alberti con cui il Leonlab ha una collaborazione ormai più che ventennale.
Insomma bravi, bravi, bravi e ancora bravi! E come disse un certo autore latino “Acta est fabula, plaudite!” (“La commedia è terminata, applaudite!”): non rimane veramente altro da fare se non applaudire davanti a questi ragazzi e a quest’opera che riflette sull’esistenza e in particolar modo sull’alienazione dell’uomo; uno spettacolo che nel descrivere un aspetto raccapricciante della nostra realtà ci ricorda che, pur nella velocità, nella rapidità dell’essere, dobbiamo trovare un punto di appoggio, un faro, un porto fermo a cui ormeggiarsi e su cui poter contare, per non essere sopraffatti dalla realtà stessa, che col suo vorticoso movimento altrimenti ci avvolgerebbe. E questo è quello che è successo proprio a Serafino, divenuto infine ciò che gli era stato chiesto, “una mano, senza corpo, senza mente, senza voce, senza il benché minimo sentire”, trascinato inesorabilmente verso l’impersonalità, l’indeterminatezza, l’abnegazione di sé.