Mercoledì 19 aprile, presso la Libreria del Libraccio di Firenze, Via Cerretani 16, è stata organizzata dall’associazione culturale Ideerranti la presentazione del nuovo libro di Simona Baldelli, Il pozzo delle bambole (2023), pubblicato da Sellerio.
Scrittrice di origine pesarese, debutta nel 2013 con Evelina e le fate, per cui ha ottenuto vari riconoscimenti. Tra i suoi libri ricordiamo anche Il tempo bambino (2014), che parla di pedofilia, La vita a rovescio (2016), L’ultimo spartito di Rossini (2018), scritto in occasione dei 150 anni dalla nascita del musicista pesarese, La neve finché cade (2021), Alfonsina e la strada (2021), sulla prima ciclista italiana al Giro d’Italia e Processo ad Antigone (2023), un richiamo ai valori di pace e giustizia che oggi sembrano trascurati.
Affiancata dai relatori Francesca Mecatti e Leonardo Guicciardini, insegnanti liceali, la scrittrice ha risposto alle loro domande riguardo al libro, con un che di fascinoso e coinvolgente che ha assicurato l’attenzione del pubblico. Del resto la trama del libro, pur sentendola narrare a scanso di spoiler, promette una storia interessante, quella di Nina, una trovatella cresciuta in un orfanotrofio da suore crudeli, finite in monastero senza vocazione. Siamo nell’immediato secondo dopoguerra abruzzese, e l’impoverimento – materiale e spirituale – che lo determina si riflette nella vita dei residenti dell’orfanotrofio. Camerate buie e inospitali, coperte e mantelle omologate e scomode trovano conferma della loro aridità nelle disumane suore insoddisfatte, che sfogano sui bambini la rabbia accumulata verso un mondo che ha imposto loro una vita inaccettabile – con l’unica eccezione di suor Immacolata, che soffre per la violenza di cui è impotente testimone. Maltrattamento fisico e umiliazioni traumatizzanti fanno parte del sistema di educazione. Gli orfani sembrano piuttosto essere carcerati, viene loro insegnato a disprezzarsi, a convincersi di non meritare alcuna gioia, a seppellirsi in un acido bigottismo nell’ottica di un peccato totalizzante che offusca la loro vita. Ci si concentra sulla situazione di Nina che non conosce nemmeno lontanamente i suoi genitori, quindi costretta al surrogato di una famiglia immaginata. Situazione magari nemmeno considerata da chi non la vive, tanto siamo spesso immersi nell’egoismo, ma che la scrittrice ci dà l’occasione di capire più a fondo. La protagonista è perseguitata nella sua vita dal mistero della propria esistenza. Chi e perché l’ha messa al mondo? Baldelli sottolinea inoltre il clima di mondo incattivito che si respirava allora – come troppo spesso anche ora – di censura dell’umano, di rifiuto al riconoscimento della dignità dell’Altro in condizione di bisogno. Allora tale clima proveniva molto e paradossalmente dalla Chiesa, che alimentava la paura del peccato, di aprirsi nella propria umanità, dal momento che più si reprime la debolezza, più essa soffoca le persone, fino a renderle selvagge o svuotarle di identità.
Vogliamo poi parlare dei giorni dell’esposizione all’orfanotrofio? Quel supplizio immane che divideva i bambini che spartivano uno stesso destino, una stessa camerata? Quei giorni erano momenti di lotta per essere visti, strappati al mondo disperato per passare a una casa di una famiglia benestante, che non cercava altro che prole adottiva da viziare e magari anche amare. Ma Nina continua a non essere vista, in una desolante condizione di emarginazione. Questo fino a quando, raggiunta la maggiore età, può uscire dall’orfanotrofio, pur portandosene dentro laceranti ricordi. Scopre l’Italia degli anni ’60, quella del boom economico, del cambiamento sociale. Anni in cui l’entusiasmo per la Repubblica e la democrazia portava a una commistione di accese discussioni sulla politica, sulle canzoni di Mina che davano un senso di appartenenza prima mai provato dalla ragazza. Trova lavoro a Lanciano come tabacchina e convive con Marcella e Carla, con sensibilità e storie diverse. Ma anche ora la protagonista non è libera da minacce: le tabacchine, considerate feccia, maleodoranti per il tabacco con cui stavano a contatto a giornate, colpite dallo stereotipo di pazzia o malvagità, sono sottopagate, disprezzate e rimpiazzabili da macchine. Ma le donne reagiscono con coraggio e coesione, perché il lavoro sostiene loro e la propria famiglia, dà identità e dignità, la soddisfazione di portare il pane a casa, permettendo di fuggire la violenza domestica di cui erano talvolta ingiustamente vittime.
E scioperando fanno capire che la loro manualità era insostituibile e importante in un mondo assuefatto al tabacco come simbolo di socializzazione.
Il mondo di allora ci è più lontano di quanto possiamo immaginare: aveva quello stoicismo inconsapevole guidato dall’istinto di sopravvivenza, quella lotta semplice ma dura per l’oggi che in genere nei nostri nauseabondi opulenza e egocentrismo scordiamo, come anche le nostre radici. Un’altra riflessione offerta dal libro è la comprensione del nostro atteggiamento verso la politica: spesso ne scordiamo l’etimologia, e ripudiamo la parola come qualcosa di impopolare, se non dietro l’interesse di giochi di potere o di comparire bene. Dal greco antico politikḗ significa “che appartiene alla città-stato”, e Nina è politica in questo senso di appartenenza e coinvolgimento rispetto a ciò che succede al proprio mondo, a chi sta vicino e sopra a governarci. Il senso è quello del bisogno umano di sentirsi parte di un gruppo che ci sostiene nei momenti di spaesamento, ovvero il senso di passare da “io e voi” al “noi”, dimensione comunitaria e rassicurante non così utopica se ci impegnassimo a costruirla, in assenza di malati tabù, ipercriticismo, gerarchie irreali, ingiustificabili superiorità, paure e complessi di inferiorità.
Noi è tutt’altro che una massa livellata di automi, è una dimensione di consapevole, pacifica convivenza di diversità, gioie e fallimenti. È un insieme di io che smettono di ragionare come se solo loro esistessero singolarmente e che combattono i nemici, dandosi da fare, meritando il guadagno e sostenendosi. È così che le tabacchine unite scioperano dando vita alla “rivolta delle tabacchine di Lanciano” il 4 giugno 1968, in quel clima di proteste controverso, purtroppo talvolta insensatamente violento, ma in questo caso di riscatto. Seguì l’occupazione del tabacchificio per ben 40 giorni. Si unirono alla protesta dieci mila persone in totale, in una cittadina di 25 mila, tra studenti, sindacalisti, lavoratori di varie provenienze, servizi come bar e banche chiusi. Era un clima di intesa e solidarietà quasi magico agli occhi dei pigri, degli egoisti convinti che la realizzazione personale stia solo nell’io. Io che poi diventa insostenibile senza gli altri. Le tabacchine di cui racconta Baldelli erano dignitose e lavoravano onestamente attraverso la loro peculiare perizia nello scegliere, lavorare il tabacco: un tipo di sapienza artigiana per cui la scrittrice nutre un rispetto e un rimpianto quasi sacrali, cultura più vera di citazioni e paroloni vuoti, che arrancano nella consapevolezza di non servire a niente, se non a incrementare il loro deludente distacco dalla nostra realtà.
Micro- e macro-storie sono conciliate in un libro pieno di riflessioni attuali, non, o almeno non solo, per sentimentali che passano le giornate a rimpiangere passivamente i vecchi tempi. Riflessioni che rianimano la speranza in una quotidianità migliore, di diritti dovuti, non solo sulle bocche dei vari guru, di rivalsa rispetto al più scadente e interessato individualismo. Ma, dal momento che l’autrice del libro ci ha gentilmente concesso un’intervista, lasciamo la parola a lei, più affidabile e esperta rispetto all’essenza del proprio libro.
Perché ha scelto il titolo “Il pozzo delle bambole”?
«Volevo comunicare un canale attraverso cui passano le persone, le idee, i fatti, che riemergono dal profondo, dal non detto, anche da qualcosa di sconveniente. Il pozzo inghiotte, ma da esso una carrucola porta su pezzi di storie, di persone…»
Quali obiettivi o ragioni l’hanno spinta a scrivere questo libro?
«Mi ha spinta lo spaesamento che provo in questo periodo; faccio molta fatica a riconoscermi nel mio tempo e vorrei che si recuperasse un poco della combattività del passato, perché forse dobbiamo riprenderci qualche pezzo di futuro che non abbiamo più.»
Come si è documentata per scrivere questa storia?
«Ho visto un documentario realizzato in occasione del quarantennale dello sciopero di Lanciano e poi ho letto un volume pubblicato dal comune di Lanciano Le tabacchine insorgono, ho chiesto testimonianze ai familiari delle tabacchine.»
Pensa ci sia una sorta di filo rosso che collega tutti i libri che ha scritto, ad esempio qualche tematica ricorrente…?
«C’è sempre la tensione a una realtà sociale. I personaggi sono al servizio della storia che racconto, mai il contrario: mi piace mettere al centro del romanzo tematiche sociali piuttosto rilevanti per i nostri giorni, anche quando è ambientato nel passato. Ad esempio, ne La neve finché cade il cambiamento climatico e l’ecologia erano i temi portanti.»
Secondo lei qual è il suo ruolo nella società come scrittrice?
«Anche gli scrittori fanno parte di questo mondo e devono, come tutti, aggiungere valore, penso in particolare per quanto riguarda una classe intellettuale, se mai questo paese ha o ha avuto una classe intellettuale; negli ultimi quarant’anni invece ci siamo limitati a citare i grandi, come Pasolini, il quale ha previsto tutto ciò che sarebbe accaduto sino a oggi. Ma a furia di limitarci a citare grandi pensatori risulta che nessuno ha concretizzato il futuro che avevano delineato.
Giustizia, lavoro, dignità, riconoscimento e realizzazione dei pieni diritti di ogni individuo, pace possibilmente, sono bisogni che non ci si preoccupa di soddisfare, per cui invece negli anni ’60 e ’70 si era disposti a tutto, anche a troppo.»
La conciliazione nel libro di tanti mondi, l’orfanotrofio, la formazione, il femminismo, lo sciopero, si è evoluta mentre scriveva o era progettata?
«All’inizio avevo l’idea di lavorare sugli esclusi, gli emarginati, ma non immaginavo un mondo femminile; mi è venuto di conseguenza una volta venuta a conoscenza dell’occupazione delle tabacchine. Se volevo seguire personaggi che poi avrebbero scioperato come tabacchine, dovevano essere bambine. Poi ho costruito una scaletta del romanzo. Penso che gli autori scrivano i libri che vorrebbero leggere (o almeno per me è così) e poiché la pluralità di argomenti e intrecci a me piace, spero che anche per il lettore sia così. Mi annoiano i romanzi che parlano di una sola cosa, perché nella realtà non è così: anche una giornata qualsiasi è attraversata da vari avvenimenti. Cerco anche di rispettare il lettore, che secondo me è capace di assimilare più concetti alla volta.»
A quale pubblico pensa sia rivolto il libro?
«Quasi ogni scrittore, mentre scrive, a meno che non si tratti di romanzi di genere – come i gialli, sentimentali, fantascienza – o punti unicamente al numero di copie vendute, si rivolge a un lettore che gli possa somigliare, soprattutto se sta trattando tematiche sociali. In fin dei conti, ognuno è il primo lettore e critico di se stesso. Mi rivolgo quindi a un lettore curioso, che vuole sapere, approfondire e non si accontenta di rimanere in superficie.»