A trentasei anni dalla sua scomparsa, oggi si ricorda uno dei più grandi scrittori del Novecento, icona dell’antifascismo e testimone della Shoah.
Primo Levi nacque il 31 luglio del 1919 a Torino, figlio primogenito di Cesare Levi ed Ester Luzzati, sposatisi nel 1917 ed appartenenti a famiglie di origini ebraiche. Nel 1937, dopo esser stato rimandato in italiano, si diplomò al Liceo classico Massimo d’Azeglio, superando l’esame di maturità; dopo il percorso liceale si iscrisse al corso di laurea in chimica presso l’Università di Torino.
Nonostante le discriminazioni introdotte dalle leggi razziali, ormai già in vigore da qualche anno, nel 1941 Primo si laureò con una tesi compilativa in chimica riuscendo a ottenere anche la lode: nel suo diploma di laurea deciderà di riportare la precisazione “di razza ebraica”.
Nel 1942, si trasferì a Milano, avendo trovato un impiego presso la Wander, una fabbrica svizzera di medicinali, dove venne incaricato di studiare alcuni farmaci contro il diabete.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 si rifugiò in montagna, unendosi a un nucleo partigiano operante in Valle d’Aosta, ma ben presto (circa due mesi dopo) venne arrestato insieme a due suoi compagni dalla milizia fascista e trasferito nel campo di Fossoli, in provincia di Modena ed è qui che cominciò la sua odissea: nel giro di poco tempo, infatti, il campo fu preso in gestione dai tedeschi, che deportarono Levi insieme ad altri 650 ebrei in Polonia, nel lager di Auschwitz. Al suo arrivo venne marchiato con il numero 174517, secondo la pratica che spogliava i detenuti della loro identità per sostituirla con il numero tatuato sul braccio; fu successivamente spostato al campo Buna-Monowitz, anche noto come Auschwitz III.
Buna-Monowitz era collocato presso Buna Werke, che allora era uno degli stabilimenti chimici più grandi d’Europa, e il campo era stato costruito nelle vicinanze proprio per utilizzare i detenuti come forza lavoro all’interno dello stabilimento. In quanto chimico, nel campo di concentramento Levi ottenne un incarico come specialista di laboratorio, posizione che gli permise di ottenere condizioni di vita meno faticose, rispetto agli altri detenuti.
Ad aiutarlo nella sua esperienza di sopravvivenza all’interno del campo di concentramento fu sicuramente la conoscenza in maniera abbastanza elementare della lingua tedesca grazie alla letture di alcune pubblicazioni scientifiche durante i suoi studi, che gli permisero quindi di comprendere gli ordini impartitigli.
La prigionia durò poco meno di un anno, sino al gennaio 1945, quando l’Armata Rossa raggiunse il lager; appena l’arrivo dei Russi si fece imminente, i tedeschi decisero di evacuare il campo, costringendo i detenuti a intraprendere una marcia della morte, in cui persero la vita moltissimi prigionieri. Fortunatamente, in quel periodo Levi era stato ricoverato in infermeria perché ammalato di scarlattina, e fu quindi escluso dalla marcia di evacuazione, salvandosi così dalla tragica fine toccata a tanti altri: dei 650 ebrei arrivati ad Auschwitz assieme a Primo Levi, soltanto in venti sopravvissero al lager.
Tornato in Italia, Primo Levi fece del suo meglio per “tornare alla vita”, entrando in contatto con gli amici e i familiari sopravvissuti all’Olocausto, ma soprattutto scrivendo: si buttò a capofitto nella stesura di un’opera memorialistica in cui narrava l’esperienza della prigionia, non tanto per puntare un dito contro i colpevoli di quell’immensa tragedia, quanto piuttosto per tentare di capire, di spiegare, di trovare un perché a quanto era successo.
Il manoscritto, da principio intitolato I sommersi e i salvati, fu rifiutato da diversi editori, prima fra tutti la casa editrice Einaudi; l’autore si rivolse allora a una piccola casa editrice torinese, la De Silva, diretta da Franco Antonicelli, che scelse di pubblicare il manoscritto, ma di cambiarvi il titolo. Fu proprio Antonicelli a scegliere il titolo con cui l’opera è tutt’ora conosciuta: Se questo è un uomo si ispira alle parole della Shemà, preghiera ebraica tra le più sentite della liturgia, da leggere due volte al giorno.
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Con l’entrata delle truppe russe nel Lager di Auschwitz inizia il secondo libro di Levi, La tregua, pubblicato nel 1963 e considerato da alcuni la sua opera più alta. La tregua narra il tormentato viaggio di ritorno in patria dell’autore attraverso un’Europa ancora sconvolta dalla guerra. Così come l’esperienza del Lager è associabile all’Inferno, l’odissea del viaggio di ritorno, nel quale avviene una lenta resurrezione alla vita, rimanda al Purgatorio, in una sorta di percorso dantesco; ma l’analogia con Dante si ferma qui: Levi, infatti, non riuscirà mai a raggiungere la completa liberazione.
Nel 1945 conobbe Lucia Morpurgo che diventerà sua moglie a settembre del 1947: questo incontro, insieme al lavoro di chimico, gli permise di superare il momento più doloroso del ritorno e di dedicarsi alla stesura di Se questo è un uomo.
Interessante è il suo punto di vista nei confronti della religione: Primo Levi non era religioso, si proclamava ateo e non credente, una posizione rafforzata certamente dalla drammatica esperienza nel campo di sterminio. Diceva l’autore: “C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio”.
La mattina dell’11 aprile 1987 il corpo senza vita di Primo Levi viene ritrovato alla base della tromba delle scale del palazzo di Torino in cui ha vissuto per quasi tutta la sua esistenza. L’ipotesi di un suicidio sembra la più attendibile, anche in assenza di un messaggio che ne spieghi il gesto; tuttavia, un alone di mistero avvolge ancora oggi la sua morte, perché l’ipotesi di un incidente non è mai stata del tutto esclusa.
E’ straziante pensare che un uomo sopravvissuto all’orrore dei campi di concentramento e che ha fatto della sua esistenza testimonianza viva di tale orrore, decida di uccidersi. Viene spontaneo interrogarsi sul peso che incombeva su di lui per gli abusi patiti e osservati nel lager, ma oltre a questo peso, se ne intravede uno ancora più nefasto: quello del senso di colpa di chi sopravvive e porta per sempre con sé il ricordo di chi non ce l’ha fatta.
Nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati, egli scrive: “Fui un eletto, io, un salvato. E perché proprio io? Lo ripeto, non siamo noi superstiti i testimoni veri. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto non è tornato per raccontare o è tornato muto; ma sono loro, i sommersi, i testimoni integrali. Loro sono la regola, noi l’eccezione.”
Come può una vittima arrivare a pensare questo della sua liberazione, a sentirsi un privilegiato? Se davvero Primo Levi si è suicidato, può sembrare che si sia voluto unire alle schiere dei sommersi, diventando un testimone alla stregua di quanti non avevano fatto ritorno e che, con la loro assenza, urlavano tutto l’orrore dello sterminio.