Dopo tre anni di studio, il ricercatore Tommaso Proietti ha sviluppato presso i laboratori di Harvard un dispositivo robotico leggero e indossabile come una giacca. L’idea di creare robot pratici da indossare è nata infatti nell’Università di Harvard negli Stati Uniti. Proprio la leggerezza distingue da altri affini l’apparecchio, che pesa poche centinaia di grammi. Gli apparati di controllo, batterie e elettronica consistono invece in una “cintura” che pesa circa 3,6 kg. Il “giubbotto” è costituito da attuatori pneumatici localizzati sotto le ascelle che, gonfiandosi nel giro di 30 secondi, agevolano il movimento delle braccia quando i sensori inerziali del dispositivo avvertono che l’utente cerca di muoversi in una certa direzione. Grazie al dispositivo, il movimento richiede minore sforzo muscolare, come mostra l’elettromiografia (esame con cui si registra l’attività neuro-muscolare). Il ricercatore spera che col tempo il prodotto possa entrare in commercio con eventuali miglioramenti di funzionalità, offrendo maggiore autonomia ai malati di SLA, che generalmente non riescono a controllare con disinvoltura il movimento delle braccia.
Detto questo però, è spontaneo chiedersi come si origini una malattia tanto grave, che genera tanto sgomento, un progressivo spegnersi della vitalità dell’organismo.
Definizione, cause, diagnosi e cure
Occorre sapere che la SLA (acronimo di Sclerosi laterale amiotrofica) è una malattia neurodegenerativa, si stima che nel mondo colpisca due persone ogni 100.000 in media e è la più diffusa tra quelle che affliggono il sistema nervoso. È stata studiata a partire del XIX secolo dal neurologo francese Charcot, che la contrasse e la definì come malattia tipica degli adulti, causa una progressiva paralisi muscolare; eclatante quanto eccezionale è stato il caso dell’astrofisico Stephen Hawking che ha convissuto con la malattia per oltre cinquant’anni, dimostrando l’imprevedibilità dello sviluppo del morbo. Esso colpisce i motoneuroni, cellule da cui dipende la contrazione dei muscoli, la quale ci permette di camminare, respirare, parlare, deglutire, fare insomma tante azioni apparentemente scontate. Queste cellule progressivamente subiscono deterioramento (anche detto atrofia), senza adeguata sostituzione di altri neuroni, in un lasso di tempo e a partire da sintomi iniziali che variano da individuo a individuo. La malattia preserva generalmente intatte le facoltà sensoriali e cognitive in un corpo sempre più fermo, anche se potrebbe pregiudicare anche la memoria e la capacità decisionale. Comprensibile conseguenza della consapevolezza di quanto accade è spesso la depressione.
La malattia sembra essere multifattoriale, ossia dovuta a più cause, tuttavia la ricerca non ha ancora desunto definitive spiegazioni. Si parla di fattori genetici (soprattutto per mutazioni acquisite per svariate ragioni, tra cui anche stress, o mutazioni ereditate), eccesso di glutammato (neurotrasmettitore, ossia sostanza che trasmette impulsi nervosi da una cellula all’altra per attuare risposta agli stimoli), che provoca una dannosa iperattività del sistema nervoso, mancanza di fattori di crescita neuronale per lo sviluppo di nervi e contatto tra fibre nervose e muscolari; si parla poi di fattori ambientali come assunzione esagerata di sostanze che ledono il sistema nervoso, ad esempio alluminio, mercurio, piombo, erbicidi, insetticidi, fumo di sigaretta, inoltre stress ossidativo e disfunzione mitocondriale (questi ultimi, problemi che causano intossicazione, scarsa produzione di energia, deterioramento delle cellule). La diffusione della malattia tra chi è stato soldato sembra essere spiegata quindi dalla nocività dei metalli (piombo in primis) che costituiscono armi con cui i militari sono costantemente a contatto. Pare anche che attività fisica troppo intensa, azione di alcuni patogeni, alimentazione malsana predispongano alla contrazione della malattia.
I dati a disposizione suggeriscono che si manifesti maggiormente tra i maschi entro la terza età, ma che poi riguardi indistintamente entrambi i generi, soprattutto di etnia caucasica. Tuttavia non si è ancora in grado di capire perché la malattia prediliga certe vittime, ma si auspica di diventarlo in quanto magari utile a capire come intervenire.
La diagnosi, come la cura, purtroppo non è stata formulata con precisione. Per la diagnosi, occorrono monitoraggio degli sviluppi, conoscenza della storia clinica del paziente, ripetuti esami seguiti da un neurologo come elettromiografia, test sulla velocità di conduzione nervosa, biopsia muscolare, esami radiologici, del sangue, delle urine, per accertarsi che i sintomi siano dovuti alla SLA e non a altre malattie (come tumore al midollo spinale, infezioni, ernia cervicale o del disco, sclerosi multipla, che agli albori si manifestano allo stesso modo).
Agli inizi della malattia in genere si assiste alla debilitazione di arti, ma si può partire da qualunque attività regolata dai muscoli, in base alla zona di motoneuroni prima colpiti (si parla di SLA spinale o bulbare se ne risentono prima rispettivamente gli arti oppure capacità respiratoria, di deglutizione, articolazione di parola). Sintomi che potrebbero essere trascurati, interpretati come conseguenza di stanchezza. Negli stadi avanzati, purtroppo i malati dipendono da tutori per ogni movimento, perdono l’uso della parola, necessitano di apparecchi per nutrirsi, non potendo più deglutire, per respirare, di computer per comunicare. In particolare, si cerca di alleviare le grandi difficoltà che pone la malattia collegando il malato che ha ricevuto l’operazione di gastrostomia a un macchinario attraverso un sottile tubo per l’assunzione di una dieta adeguata, chi è stato operato di tracheostomia a un macchinario per la ventilazione tramite un tubo inserito nella laringe; si interviene anche contrastando con fisioterapia la paralisi e i danni al sistema cardiocircolatorio, con inserimento e interazione sociali la dolorosa sensazione di essere un peso inutile. Un logopedista insegna quali siano gli sforzi necessari a parlare con maggiore forza e chiarezza, altrimenti amplificatori vocali, computer con puntatori oculari agevolano la comunicazione.
Curare significa evitare o rimandare quanto possibile un peggioramento, ma non esistono trattamenti per la guarigione al momento, anche perché manca la conoscenza di cause certe per cui creare terapie ad hoc. È stato approvato nel 1995 il farmaco patogenetico (in grado di rallentare la progressione del morbo) riluzolo, nonostante i suoi effetti collaterali, come danni al fegato. Antidepressivi per combattere un umore comprensibilmente frustrato, miorilassanti, oppioidi, cannabinoidi contro dolore e crampi sono farmaci che invece che la malattia in sé, ne contrastano le conseguenze, perciò sono detti sintomatici.
Gli interventi vanno insomma personalizzati in base alle esigenze del paziente. È importante che questi abbia subito dopo la diagnosi il supporto di una coesa squadra di specialisti: nutrizionista, psicologo, logopedista, fisioterapista, infermiere dovrebbero spalleggiare quando possibile la vicinanza dei familiari. L’èquipe cerca di decidere il percorso da intraprendere nella progressione del morbo insieme al malato, ai suoi familiari, puntando al raggiungimento di un minimo indispensabile di agevolazione a autonomia. Vivere con una malattia degenerativa per cui è praticamente nulla la possibilità di guarigione è ineffabilmente amaro, faticoso, come lo è prendersi cura da familiare attraverso pratiche, apparecchi al cui uso l’èquipe terapeutica istruisce.
È arduo dal punto di vista economico e della salute psicofisica, del malato ma anche di chi ne vede la sofferenza e deve prendersene cura. Chi assiste e è assistito ha bisogno di vicinanza, di aiuto. È perciò fondamentale che tra professionisti, familiari e malato si crei intesa e collaborazione.
Gli aspetti psicologici
Non c’è da fare una classifica di chi sta peggio, se la persona malata o chi le è legato da profondo, sincero affetto. Forse nell’immediato viene da dire il malato, che vede scemare le facoltà fisiche e quindi di esprimersi attraverso gesti, parole affermando la propria autonomia. Che si sente imprigionato nel proprio corpo più di quanto un filosofo platonico potrebbe poeticamente, in modo commovente o magari sofistico esprimere.
Già dalla definizione di “malattia neurodegenerativa inguaribile” si capisce che c’è poco da illudersi, da avere aspettative dal proprio organismo; la diagnosi fa pesare sul malato un’irreparabile condanna.
Gli esperti sottolineano l’importanza di riconoscere la persona prima che come malata, identificandola con la malattia, come soggetto che porta con sé come chiunque una storia, una personalità che non devono essere inghiottite dal morbo, nonostante innegabilmente la vita ne sia profondamente influenzata. A chi piacerebbe essere assimilato a un proprio difetto, su cui magari non si ha nemmeno controllo? È offensivo per l’individuo in generale essere appiattito a una categoria senza alcun tentativo di comprensione del microcosmo complesso e sfaccettato che è. È impossibile comprendere la sofferenza fisica e psichica di ogni malato inguaribile, per i suoi progetti cancellati, il radicale cambiamento dalle questioni più spicciole alle più profonde, che nel complesso determinano il sentire umano. È importante preservare il malato dall’avvilimento, dal rimorso, dal senso di colpa nei confronti dei cari. È un circolo vizioso, per cui se il caregiver (chi si prende cura) perde fiducia, condiziona la persona assistita e viceversa, ma può diventare virtuoso se l’uno nell’altro infonde fiducia; la fragilità però, che accompagna l’essere umano per tutta la vita, è più che comprensibile in situazioni di tale portata per l’individuo, e non va taciuta, ma anzi esternata, ha bisogno di confronto, di ascolto e qualcuno, qualcosa che motivi alla preservazione della memoria di attimi felici, e della speranza di poterne comunque passare di nuovi, nonostante tutto. Serve speranza, non illusione. Servono modi garbati, non affettati. Per quanto in buona fede, in quanto umani, spesso presi dall’immensità e dallo spavento di fronte a tali problematiche, si sbaglia nel rapportarsi. Nelle più piccole questioni del resto capire come è opportuno comportarsi, seppure con le migliori intenzioni, potrebbe diventare un grattacapo. Specialisti consigliano in questo senso, ad esempio, di non assumere l’atteggiamento di chi comprende benissimo la situazione, perché ci vuole l’umiltà di riconoscere che non si sa cosa si provi veramente, nemmeno si può attribuire disperazione e sofferenza a scarsa volontà, fare paragoni, almeno in presenza della persona direttamente interessata, che altrimenti probabilmente si sentirebbe colpevolizzata, soffrendo ulteriormente. Serve invece che chi è vicino mostri disponibilità, senza imporre decisioni che spettano al malato. Lo sconforto, la resa, per quanto poco auspicabili, per quanto si provi a dissuaderne, derivano da scelte da rispettare. In generale l’interessamento, il supporto non solo a parole ma con fatti confortano il malato, tuttavia si tratta sempre di generalizzazioni, e è difficile pensare che mai si creerà un manuale definitivo di come rapportarsi all’Altro in qualsiasi caso.
In genere la malattia prospetta un’aspettativa di vita dai tre ai cinque anni dagli albori; nel fronteggiarla sono decisivi il supporto, materiale ma anche di vicinanza umana, la forza con cui si riesce ad agire, senza che tali atteggiamenti ammirevoli implichino alcun giudizio, ingiusto, verso i loro opposti; ci si augura perciò che il dispositivo ideato dal ricercatore Proietti aiuti in questo senso, incentivando l’autonomia così preziosa all’individuo, nella speranza che progrediscano anche le ricerche circa cause e terapie riguardo la SLA.