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Edward Hopper nasce 140 anni fa, ma l’apatia disperata dei suoi quadri continua a parlarci.

Nato il 22 luglio del 1882 a Nyack nello stato di New York da una famiglia della media borghesia americana, dai cinque anni Edward Hopper dimostra già la sua attitudine per il disegno (con particolare fascino verso le navi e ciò che le riguarda, che si porterà sempre con sé) con l’incoraggiamento dei genitori, che lo iscrivono nel 1899 presso la New York School of Illustrating. Qui trova un ambiente stimolante: conosce futuri pezzi grossi dell’arte americana, il direttore e impressionista William Merritt Chase e il titolare del suo corso Robert Henri, fautore del realismo. A questi anni risalgono ritratti e autoritratti di Hopper che evidentemente cercano di catturare la luce come parte espressiva del quadro non meno di un viso da ritrarre. Egli ama cogliere gli effetti della luce, solare o artificiale, a cui dedicherà sempre un accurato studio.

Nel 1906, finito il suo corso di studi, si reca a Parigi dove apprezza la pittura impressionista e simbolista. Al ritorno in patria, due anni dopo, il suo gusto originale e introspettivo in parte europeo non riscuote successo e ciò lo costringe a mantenersi fino al 1925 come illustratore pubblicitario, mestiere che non gradiva per l’imposizione di certi canoni e la competitività dell’ambiente. Tale lavoro lo allenò tuttavia a calibrare la quantità di elementi necessari a esprimere ciò che si vuole, abilità senz’altro essenziale per un artista.

Nel 1909 torna a Parigi dove trova l’ispirazione per realizzare quadri di ambiente parigino a partire dall’impressionismo, maturando però sempre di più uno stile proprio. Da buon seguace impressionista, rifiuta di frequentare la prestigiosa École des Beaux Arts di Parigi con i suoi stretti dettami accademici sia l’atelier di un artista francese, preferendo girare per la città disegnando e poi dipingendo direttamente ciò che vede e lo attrae, consuetudine che non abbandonerà.

L’anno seguente, tra Spagna e Francia, Hopper continua a elaborare il suo stile che vede come tema centrale la solitudine e l’attesa, la descrizione architettonica anche di interni, luce e ombra, rimanendo indifferente alle nuove correnti artistiche dell’astrattismo e del cubismo.

Piano piano, i colori cupi e gli spazi angusti nei primi quadri si alternano a colori più tenui e spazi più aperti.

Pur senza abbandonare il suo amore verso cultura e lingua francesi, al ritorno in patria il pittore si lancia alla ricerca di uno stile che ritraesse l’American way, l’insieme dei costumi americani del quotidiano.

Nel 1915 sperimenta la tecnica dell’incisione e grazie ai risultati Hopper conferma il proprio modus operandi e ottiene importanti riconoscimenti.

Inizia a affermarsi in società come pittore, entrando nel 1918 nel prospero Whitney Studio Club, unendosi a altri artisti americani indipendenti. Presso Whitney Studio si svolge la sua prima mostra nel 1920. Tra i quadri della mostra c’è anche Soir Bleu (“Sera blu”, 1914), la tela che, aspramente criticata, Hopper è costretto a disconoscere ma, ritrovata nel suo studio dopo la morte, viene rivalutata nella maestria non solo nella resa di luci e ombre, ma anche nella desolazione dei personaggi, che sembrano completamente scollegati uno dall’altro, alienati: perciò il quadro anticipa l’attenzione che il pittore porrà nella riproduzione di tali elementi.

L’anno di svolta per Hopper è il 1924: fortuna in lavoro e in amore, potremmo dire in termini d’oroscopo; ottiene infatti successo pubblico e sposa la grintosa Josephine Verstille Nivison, anche lei con formazione artistica ma più astrattista del marito; si impone fermamente come unica donna che potesse fare da modello femminile al coniuge da allora in poi. Josephine e Edward, coppia di opposti (lei burrascosa e volitiva, lui ironico e pacato), lavorano separati nel loro appartamento; i diari della donna ci dicono che mentre lei incoraggiava il marito nella sua carriera artistica, questo non gradiva affatto che la moglie avesse le sue stesse ambizioni.

L’intraprendente Josephine non rispecchia l’ideale coniuge per Edward, spesso i due litigano e il marito si rivela in più occasioni oppressivo nei confronti della moglie e dei suoi interessi.

Nel 1934 acquista poi una casa a Cape Cod, penisola bagnata dall’Oceano Atlantico che frequenta d’estate; la suggestione suscitatagli dal paesaggio di dune, fari e case ispira molti suoi quadri.

Muore infine il 15 maggio del 1967 nel suo studio a New York, continuando fino all’ultimo la sua attività artistica.

Il suo stile inconfondibile fu imitato da fotografi e cineasti, incentrato su un realismo spoglio dell’ottimismo ostentato nella propaganda americana e che racchiude, a dire dell’autore, ciò che provava nell’osservare e non ciò che vedeva.

Dai suoi quadri emergono infatti le sue emozioni; l’alienazione di donne con lo sguardo perso nel vuoto o assorte nella lettura, inconsapevoli quasi del loro essere, e la chiusura nella propria interiorità dei personaggi in genere trasmettono un senso di inaccessibilità e opprimente incomunicabilità.

Si è detto che Hopper sapesse dipingere il silenzio, nel senso che le figure umane sono immerse nell’isolamento o nell’estraneità fra simili, nella contemplazione silenziosa di qualcosa che lo spettatore non può vedere.

I suoi personaggi sono rapiti dalle illusioni del grande schermo o chiusi nei loro pensieri, magari inconsapevolmente sofferenti.

La presenza umana non è quasi mai assente nei suoi quadri, anche solo attraverso prodotti artificiali, quali strade e edifici. Nonostante la brillantezza dei colori, è tipica della sua pittura l’assenza di vitalità, un senso di morte incombente che si insinua nello spettatore dandogli inquietudine. Soprattutto con l’avvento della Seconda Guerra Mondiale si accentua nei suoi quadri il senso di irrequietezza: il pittore era diviso tra l’adesione a un intervento che ponesse fine a quel caos in Europa e la repulsione per quella guerra orrenda fomentata dai regimi dittatoriali.

Tutto nei suoi quadri è immobile e sospeso, con forme geometriche e regolari, taglienti come la luce fredda. Si attende qualcosa di angoscioso ma che non si conosce. La freddezza e l’impenetrabilità degli esseri umani scivolano inevitabilmente nella solitudine, che si sia in una stanza da soli o in un bar affollato. La pesantezza di alienazione e silenzio davvero non ci parlano più? A poco più di mezzo secolo dai grandi totalitarismi che ripudiavano libertà, nella nostra società che da tanto si fonda su catene di montaggio, che spesso si limita a fidarsi delle apparenze, indifferente all’indigente, a due anni o poco più dal lock down totale, dalla vita proiettata su uno schermo, davvero possiamo dire che Hopper parlava solo della società dei suoi tempi?

Davvero il grande Hopper raccontava qualcosa di cui non sappiamo niente noi, spesso rinchiusi nel senso di impotenza contro le ingiustizie e le guerre o a esso indifferenti, ipnotizzati da videogiochi, imprigionati in un surrogato di affettività nocivo, nella contemplazione dei nostri simili felici su Instagram, nelle pubblicità euforiche e rassicuranti e in amicizie superficiali ma che ci danno la forza di imporci? La risposta evidentemente negativa ci giuda a riflettere sul nostro essenziale e magari ci potrebbe invitare a scoprire di più dei numerosi quadri di Hopper che parlano di questa realtà a noi familiare, di una freddezza, di un realismo pungenti; più in generale potremmo imparare dall’arte che racconta di noi, essere spinti  a scoprire più in profondità la realtà globale della sopraffazione e della dipendenza da droghe (non necessariamente erbacee o chimiche per essere tali) per combatterla e cambiarla, una volta usciti dal guscio di beata ignoranza (e indifferenza) in cui ci culliamo.

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