Essere un eroe non significa avere una calzamaglia distintiva, un follemente desiderato apprezzamento plateale, ma essere in grado di cambiare in meglio la vita a qualcuno e di infondere speranza e ispirazione pure in situazioni scoraggianti, essendo pronti al rischio e al (paradossale) disprezzo altrui.
Giovanni Falcone è stato esemplare in questo tipo di eroismo: la sete di giustizia lo ha guidato costantemente fino alla morte, avvenuta proprio trenta anni fa, portandolo a rinunciare a una vita “tranquilla” ma che avrebbe trascinato il peso della corruzione e della disonestà. E questa sua grande virtù ha suscitato in tante persone la consapevolezza che è davvero possibile, e non solo un’illusione, un mondo ripulito da soverchierie e ingiustizie che avvelenano da tanto, troppo tempo le vite di altrettanto troppi esseri umani, riducendoli a schiavi, strumenti disumanizzati per compiere soprusi, che essi se ne rendano conto o meno. Esiste un nemico comune, che non è il cattivone di turno – sarebbe comodo, no?-, ma un sistema complesso che si è radicato col tempo perché è stato lasciato libero di crescere e di diffondersi, per colpa della collaborazione di più persone di quanto si possa immaginare; questo sistema non si trova solo in Sicilia come vorrebbe la nostra faciloneria, ma ovunque ormai: è la mafia, il fiele che preclude l’innocenza e il contributo di tutti alla costruzione di una vera sicurezza, non quella di chi ci usa promettendo di proteggerci poi, ma di chi vuole tutelarci senza secondi fini, se non quello di una società migliore. E per conseguire tale miglioramento, a ognuno di noi è richiesto uno sforzo che si declina in svariate situazioni, non solo nel contesto mafioso: rompere quel colpevole silenzio omertoso che sul momento è tanto conveniente, ma sappiamo essere sbagliato e per qualcuno forse anche dannoso. Altrimenti prolifera un’organizzazione che può parere – e vuole parere – un’alternativa allo Stato più efficace, senza contare che la stessa organizzazione ha due facce: da difensore senza scrupoli per i suoi seguaci, da potenziale omicida o furente persecutore verso chiunque non le si sottometta. La protezione mafiosa infatti a volte può sembrare confortevole, ma pagata a caro prezzo, non solo con l’estorsione di denaro e in libertà di espressione, ma anche in vite umane. La mafia è purtroppo spesso scambiata rassegnatamente con la quotidianità, e la mentalità che ne deriva è, in grande, la stessa del bullismo a scuola: io bullo prevalgo sugli altri grazie all’uso della violenza, e di qui l’assoggettamento di questi altri, e di qui l’omertà di essi; tu fai quello che voglio e non dici nulla a nessuno, e tutti tranquilli. Così si presenta il gretto dispotismo del bullo e (potenziale) mafioso.
Ricordiamo dunque Giovanni Falcone come uomo integro e risoluto nell’estirpare questo male per portare giustizia, prima che abile magistrato e simbolo internazionale della lotta alla mafia.
Egli nacque a Palermo il 18 maggio 1939, terzo figlio di Arturo Falcone, direttore di un laboratorio chimico di igiene, e Luisa Bentivegna in una famiglia agiata di uomini militari di un certo rilievo, alcuni dei quali tristemente deceduti o feriti in guerra.
Il conflitto non si era ancora arrestato alla sua nascita e costrinse a trasferirsi più volte la famiglia, che sottraendosi ai bombardamenti, rimase comunque vicina al luogo d’origine.
Giovanni frequentò il liceo classico a Palermo, dove conobbe l’illuminato professore di storia e filosofia Franco Salvo, dal quale rimase profondamente influenzato; finito il liceo con risultati eccellenti, seguì poi lezioni presso la Facoltà di Giurisprudenza di Palermo con la sorella Maria, avviandosi a un percorso di studi che compì con altrettanto successo; senza dubbio tali studi erano a lui più congeniali di quelli presso l’Accademia navale di Livorno, abbandonati dopo poco.
Ma la sua formazione fu segnata anche dallo sport e ancora di più dal Cattolicesimo, in particolare da padre Giacinto che divenne una stella polare per il piccolo Giovanni. Proprio in quel contesto, all’oratorio, conobbe a tredici anni il coetaneo Paolo Borsellino, con cui poi instaurò un sodalizio che li unì nella magistratura nei tempi più duri e intensi delle loro vite. Nello stesso ambiente c’erano anche coloro con cui in futuro avrebbe avuto a che fare in termini meno amichevoli, in quanto mafiosi in erba.
Nello stesso 1964 sposò la maestra elementare Rita Bonnici e iniziò la sua ascesa in carriera. Divenuto magistrato, conseguì poi anche la pretura a soli 26 anni e iniziò a interessarsi di diritto penale. Sono questi anni di grande evoluzione per il giovane Falcone, toccato dagli ideali comunisti. Egli vedeva in essi una strada per annullare le disparità sociali, nonostante ciò lo contrapponesse alla famiglia, che prediligeva la Democrazia Cristiana; in seguito aderì al socialismo, ma sempre anteponendo la legge costituzionale alle proprie ideologie politiche, dall’influenza delle quali si guardò senza posa in ambito lavorativo.
Nel 1973 si trasferì a Trapani, per poi tornare a Palermo nel 1978, lasciato dalla moglie innamoratasi di un altro. L’anno seguente nacque il suo amore, ricambiato, per la collega Francesca Morvillo, con la quale si sposò nel 1986. Sempre nel 1979 accettò di occuparsi professionalmente di diritto penale, come da tanto gli proponeva Rocco Chinnici, un magistrato più anziano. Allora iniziò la collaborazione con Paolo Borsellino.
L’indugio di Falcone nel buttarsi in questo lavoro a cui dedicò il resto dei suoi giorni è motivato dal pericolo che tale occupazione poteva comportare, specie con la mafia vicina e pronta a intralciare a ogni costo il giusto corso dei processi a proprio vantaggio.
Nel 1980 ci fu l’importante caso Spatola: il palermitano Rosario Spatola e altri pezzi grossi di clan italo-americani erano sospettati di contribuire al traffico di stupefacenti con gli Stati Uniti, e in queste circostanze Falcone inaugurò una sua strategia – passata alla storia come “metodo Falcone” – per ottenere le prove che gli servivano: tale strategia consisteva nel seguire le tracce degli spostamenti di denaro e le azioni bancarie; si scoprì così la stretta relazione tra mafia siciliana e americana, coinvolte in questi commerci illeciti.
Nello stesso periodo fu avviata un’altra indagine sempre per spaccio di droga, su Francesco Mafara e la sua compagnia.
Anche se entrambi i processi costarono purtroppo l’uccisione di autorità che avevano contribuito alla cattura dei criminali, si conclusero con grandi successi per Falcone, che tra l’altro iniziò una cooperazione proficua con investigatori e agenzie americane nella lotta contro il crimine, FBI compresa. Il magistrato, a cui da allora in poi venne affiancata una scorta, sosteneva infatti la necessità di un’unità internazionale nelle indagini in materia di mafia, in quanto non era niente affatto circoscritta alla Sicilia.
Giovanni Falcone venne poi a far parte nel 1983 del pool antimafia – ossia un gruppo di magistrati italiani con uno scopo comune – costituito da Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. A idearlo fu il grande magistrato Rocco Chinnici, ma nello stesso anno fu ucciso dalla mafia; lo sostituì quindi come procuratore il collega Antonino Caponnetto. La squadra era attiva a tempo pieno e in particolare indagava per la condanna di 162 mafiosi; la sua efficienza derivava anche da una buona suddivisione del lavoro e fu presa a modello successivamente per lo stesso tipo di investigazioni.
Un’importante svolta nell’impresa fu determinata dalla conversione del boss mafioso Tommaso Buscetta, il primo grande pentito a collaborare con la giustizia.
Ormai era stanco della feroce rivalità tra le cosche, i clan mafiosi, che tra l’alto gli era costata la morte di due figli, il fratello e altri familiari.
Siamo al 15 luglio 1984 e Buscetta, dopo forte esitazione, si convinse a collaborare, lasciando il Brasile per raggiungere la sala interrogatori di Falcone e i suoi colleghi; fornì una chiave di lettura di Cosa nostra e di tutta la sua ramificata, complicatissima organizzazione piramidale, che senza la sua testimonianza non si sarebbe scoperta.
Buscetta fu d’esempio per altri mafiosi che si misero al servizio della magistratura, come lui moralmente esausti della vita che conducevano, colma di sfarzo e di potenza sì, ma per loro stessi e famiglia rischiosa e costretta alla clandestinità.
Le sue dichiarazioni costituirono un preziosissimo aiuto per il pool, rivelando anche certi legami tra Cosa nostra e la politica; sull’argomento però il confidente rimase risoluto nel non svelare la nuda verità, a cui, a suo dire, lo Stato non era pronto; dall’altra parte queste rivelazioni misero in una posizione ancora più compromettente agli occhi dei mafiosi Falcone, consapevole di ciò da principio.
Nel 1985 venero assassinati due collaboratori molto vicini a Falcone e Borsellino, i quali vennero trasferiti con le famiglie presso la foresteria del carcere dell’Asinara, per timore che lo stesso accadesse a loro. Come sempre, i due lavorarono senza sosta, scrivendo un’enorme ordinanza-sentenza di circa 8000 pagine! A questa colossale raccolta seguì il maxiprocesso di Palermo, svoltosi dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre 1987. Esso coinvolse la bellezza di centinaia di avvocati e 476 imputati, ma, come sottolineato dallo stesso Falcone, la conseguente vittoria non doveva dare l’illusione che la mafia fosse un capitolo chiuso della nostra storia. Il successo fu comunque eclatante perché diversamente dal solito, anche in Cassazione, il terzo e ultimo grado di giudizio, furono confermate quasi tutte le condanne: in precedenza se si riusciva a condannare qualche mafioso, in Cassazione la pena veniva “magicamente” ridotta o addirittura annullata. E questo fu senz’altro un bene, grazie alla bravura del pool e alle schiaccianti prove dalla testimonianza di Buscetta, ma dall’altra parte la mafia si legò al dito questo evento, conservando un pericoloso risentimento verso chi davvero le stava dando filo da torcere. L’impegno di Falcone non fu appoggiato certo dai mafiosi, ma neanche da altri.
Chiari segni di questa ostilità furono lettere anonime dette del corvo – soprannome del magistrato in toga nera – perché c’era l’inquietante sospetto che provenissero da quella stessa squadra che sembrava così armoniosa e unita, ma forse avvelenata da occulte invidie; in esse erano calunniati Falcone e alcuni suoi collaboratori con l’accusa di utilitarismo e corruzione, ma il culmine di ciò fu l’attentato del 1989, detto “dell’Addatura” perché avvenuto nell’omonima località di mare. Il progetto era quello di uccidere il giudice con l’esplosione di 58 candelotti di tritolo, e sebbene fosse fallito, i mafiosi non la finirono certo qui con il giudice. Non mancò tuttavia l’insinuazione che lo stesso magistrato avesse inscenato un attentato fallimentare contro di sé per puro esibizionismo.
Nonostante le prove di integrità più che valide che Falcone aveva dato negli anni c’era infatti chi ne infangava pubblicamente la reputazione. Tra essi c’erano anche personaggi politici che spesso non avevano nemmeno il coraggio di rivolgersi direttamente al giudice, che considerò molto scorretti questi atteggiamenti. Egli si trovò di conseguenza isolato in quella che viene chiamata la stagione dei veleni della sua vita, proprio per questa atmosfera tesa e avversa che lo circondava.
Tornando agli anni immediatamente precedenti, seguirono tre altri maxi-processi.
Caponnetto, che presiedeva il pool, si ritirò nel 1988 per età. Così ne prese il posto Antonino Meli. Falcone non fu eletto perché aveva meno anni di esperienza e non fu contata la sua maggiore competenza nel settore. Tale scelta fu polemizzata da molti e fece pensare ai mafiosi che il magistrato fosse più debole per la mancata elezione. Meli, se così si può dire, era meno impegnato di Falcone nella missione e impose il proprio metodo di lavoro, stravolgendo il precedente; coadiuvato dai suoi sostenitori, Meli entrò in aperto contrasto con Giovanni e respinse o ostacolò quasi ogni sua iniziativa. Sempre nel 1988 il nuovo procuratore sciolse il pool che ormai esisteva solo sulla carta, date le dimissioni e gli attriti che c’erano.
Il nostro magistrato continuò comunque il suo lavoro assennato indagando su narcotraffico di matrice mafiosa e rapporti tra mafia, politica e imprenditoria.
Nel fatale 23 maggio 1992 ci fu la strage di Capaci, che interruppe per sempre questo suo lavoro. Avvenne mentre Falcone tornava a Palermo da Roma con la moglie Francesca e alcuni mafiosi seguivano i movimenti della sua auto accompagnata da altre due di scorta. Due complici erano sopra le colline vicine a Capaci, nei pressi di Palermo. Avvertiti del passaggio delle tre auto, fecero esplodere 1000 kili di tritolo collocati sotto l’autostrada. Nonostante i tentativi per rianimare i coniugi, niente rimediò alle gravi lesioni interne riportate. Sopravvissero i passeggeri dell’auto in coda e circa una ventina di civili che nel momento dell’esplosione si trovavano nelle vicinanze. Due giorni dopo si tennero i funerali delle vittime e partecipò tutta Palermo.
L’Italia rimase sgomenta per l’ennesima perdita di un gran personaggio causata dalla mafia.
Riemersero la malignità e la freddezza con cui Falcone era stato trattato anche dai suoi stessi colleghi e furono aspramente criticati coloro che prima disprezzavano manifestamente il giudice accusandolo di corruzione e interesse, ma che in seguito commemoravano la sua grandezza.
Sebbene non ci sia più Falcone, ricordiamo con una sua citazione che “gli uomini passano, le idee restano”, nella speranza di un impegno collettivo – o quasi – per scongiurare la potenza dell’ingiustizia e in particolare della mafia, sempre attuale, anche seguendo le sue orme indelebili.