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Le interviste del Leo 51: VALERIO VAGNOLI, una vita per la scuola. Dall’insegnamento negli istituti penitenziari alla dirigenza scolastica.

Il merito è una garanzia affinché si consolidi la democrazia; se non c’è la valorizzazione del merito vincono i “soliti raccomandati”, i prepotenti

Con grande piacere abbiamo avuto la possibilità di intervistare Valerio Vagnoli, nato nel 1952 a Poppi (Arezzo) e laureato in letteratura italiana moderna e contemporanea: figura conosciuta da molti per aver insegnato dal 1973 al 2007 in tutti gli ordini di scuola (elementari, licei e scuole di periferia), inclusi gli istituti penitenziari di Firenze. In particolare la sua esperienza di maestro si è avvertita molto nella sezione femminile del carcere di Sollicciano (è stato infatti il primo docente maschio a ricoprire questo ruolo in Italia). Nel 2007 ha iniziato a lavorare come dirigente scolastico prima nell’istituto “Vasari” di Figline Val d’Arno, poi all’istituto alberghiero Saffi, andando in pensione dopo 44 anni. Infine ha fatto parte del “Gruppo di Firenze” e collabora da tanti anni con quotidiani e riviste varie. Una figura di educatore e di dirigente davvero straordinaria, di quelle che lasciano il segno e grazie alle quali la scuola italiana riesce nonostante tanti problemi e difficoltà ad andare avanti, spesso anche bene e talvolta benissimo. Ma lasciamo a lui la possibilità di raccontarsi.
Come è iniziata la sua carriera lavorativa e cosa la ha spinta a scegliere l’insegnamento?
Dunque, io ho scelto alle medie di fare l’insegnante perché mi sono trovato davanti a una professoressa straordinaria, si chiamava e per fortuna si chiama ancora Graziella Giovacchini, che ha contribuito a formarmi, a cambiare la mia visione del mondo e la mia vita in maniera veramente importante. Sono stato fortunato ad incontrare sia lei che Luigi Baldacci , il mio maestro dell’università: un grande storico della letteratura e un grande docente e critico letterario che mi ha, invece, dato un indirizzo e un metodo davvero speciale per quanto riguarda lo studio in generale della letteratura e della sua storia. Sul modello della mia insegnante delle medie ho pensato di dover raccogliere la sfida e cimentarmi nell’insegnamento con tutto me stesso (seppur io non abbia assolutamente raggiunto i suoi livelli). Credo di avere due primati, se così si possono chiamare, a livello forse nazionale. Il primo è che ho insegnato in tutti gli ordini di scuola (salvo l’università), dalle elementari, ai doposcuola, all’asilo (avendo avuto già negli anni Settanta per mancanza di maestre una supplenza in una scuola materna per quindici giorni), al carcere femminile, alle medie, alle superiori (licei, professionali e tecnici) e ai corsi per adulti…insomma, in tutti gli indirizzi e tipologie della scuola italiana! Molte di queste scelte sono mie. Ho voluto sperimentarmi in qualsiasi contesto: dal liceo sono andato per mia scelta a insegnare a un professionale, per poi spostarmi anche al tecnico. Il secondo primato è che credo di essere il primo insegnante maschio ad aver insegnato in un carcere femminile. Avevo già svolto il mio lavoro anche in altre carceri: carcere minorile e degli adulti, riformatorio e poi nell’ ‘83, anche stavolta non per mia scelta, ebbi il ruolo al carcere femminile e andai a insegnare e a fare questa esperienza che rimane in assoluto la più forte e autentica della mia vita.
Visto che è stato insegnante nelle scuole istituite presso gli istituti penitenziari di Firenze…cosa ci può dire riguardo a questa esperienza?
Dunque, sono quelli degli anni terribili. È la seconda metà degli anni Settanta e sono gli anni dell’eroina. Quando entrai nel carcere minorile, tanto per dare un’idea, il direttore del carcere mi indicò un ragazzo che era in un angolo del cortile, un piccolissimo cortile, perché il carcere minorile era contiguo alle Murate, quello che era allora il carcere degli adulti. Mi indicò il ragazzo, isolato perché era un drogato e per questo tenuto distante anche dai compagni. Si trattava del suo primo giovane detenuto per uso e spaccio di stupefacenti.

Allora lo spaccio era quasi esclusivamente di eroina e nel giro di pochissimi anni, o addirittura nel giro di un anno, la maggioranza dei ragazzi che finivano in carcere lo erano per problemi di spaccio di droga, per omicidi e per rapine quasi sempre legate alla droga. Quelli sono stati anni duri anche per il terrorismo, che vede entrare in scena terroristi di ogni colore. Via Ghibellina, durante i processi, soprattutto alle brigate rosse, che si tennero a Firenze, era stata chiusa. Per arrivare al carcere occorreva fare dei lunghi percorsi a piedi perché il quartiere era tutto quanto isolato e controllato dalle forze dell’ordine. Era un clima davvero terribile sotto molti punti di vista, e anche i detenuti erano segnati da queste esperienze dure; inoltre non sempre era facile essere sereni nell’insegnare a persone che si erano macchiate di delitti così orribili. Tutti i delitti sono orribili, ma quelli del tutto gratuiti e motivati, peraltro in piena democrazia, da ragioni “politiche” e pretestuose lo sono ancora di più.
Lei è stato anche per molti anni dirigente scolastico, gli ultimi sei all’istituto alberghiero Saffi riuscendo persino ad aprire un ristorante. Cosa ha significato per lei quell’esperienza? E cosa è cambiato nella scuola di oggi rispetto a alcuni anni fa?
Dunque, per certi aspetti è cambiato molto, e per altri no. Quelli che sono cambiati molto siete voi; le generazioni cambiano con una velocità straordinaria ed è giusto che sia così. Gli studenti di sei anni fa non erano come voi. Non è banale né facile misurarsi con nuove generazioni in continuazione. Il lavoro dell’insegnante ha questa difficoltà, che è maggiore rispetto a tutte le altre: doversi adattare appunto alle nuove generazioni, confrontarsi, scontrarsi, capire che gli studenti sono ragazzi una sola volta, per pochi anni e che hanno quella sola opportunità per mettersi in gioco e per determinare il loro futuro. I giovani, soprattutto quelli che fanno un professionale, è importante siano posti quanto prima davanti a quello che sarà il loro futuro e rassicurarli sul fatto che una intelligenza portata all’esperienza pratica ha lo stesso valore delle intelligenze cosiddette votate alla astrazione. Per un istituto alberghiero, pensai fosse importante che i ragazzi non solo simulassero, ma gestissero direttamente un’attività ristorativa, con tutte le funzioni e ruoli che questa comporta: pasticceria, gastronomia, sala, accoglienza. In questo progetto erano impegnate tutte le figure dei tre indirizzi dell’istituto, e doveva essere (e lo è stato) un’esperienza anche di educazione alla legalità. Tutti i ragazzi erano assicurati, assolutamente consapevoli che non si deve accettare di lavorare al nero, imparavano ad essere onesti nei ricarichi dei prezzi, nel preparare cibi genuini e nell’ essere rispettosi, ovviamente, della clientela . È stata un’esperienza molto bella.
Il ristorante, nel giro di poco tempo, era diventato uno dei migliori di Firenze. Noi eravamo ospiti in una struttura non nostra e di grande prestigio; poi da lì abbiamo aperto un altro ristorante, per andare poi a lavorare ad Asmana (una SPA Toscana a pochi minuti di strada da Firenze). Noi aprimmo l’attività contemporaneamente alla nascita della Spa e insieme ai due titolari di Asmana: due persone straordinarie e rispettosi della legalità: un tedesco e una indiana. L’esperienza si portò avanti con loro e quando alla fine andai in pensione, mi proposero di assumere direttamente tutti i 22 ragazzi del ristorante. Un rapporto così costruttivo anche per quanto concerne il rispetto della legalità l’ho trovato molto raramente durante tutta la mia esperienza con il mondo del lavoro. Malgrado siano passati ben 5 anni molti di questi ragazzi e di queste ragazze continuano a lavorare in quella struttura.
Le manca il contatto con gli studenti e l’ambiente scolastico in generale? C’è qualcosa che invece non rimpiange?
Senza dubbio mi manca il contatto con i giovani, ma allo stesso tempo penso che una persona abbia una vita intera per abituarsi al suo futuro da pensionato e per trovare altri stimoli rispetto ai rimpianti e ai ricordi. È stata un’esperienza che è oramai passata. Per fortuna è stata bella, faticosa, impegnativa, ma sicuramente ho fatto quello che desideravo fare fin da ragazzo, quindi non rimpiango nulla, perché l’ho fatto con molta passione e talvolta purtroppo facendo anche degli errori. Magari tornassi indietro alcune cose non le ripeterei, anche nel metodo di insegnamento, però l’ho fatto credendoci e in buona fede e questo è ciò che conta davvero.
Lei è stato tra i fondatori del Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità. Di cosa si tratta esattamente?
Solo da un anno mi sono dimesso da varie attività, continuo con la scrittura ma non collaboro più con il Corriere fiorentino, con il Gruppo di Firenze e con altri perché mi sono voluto ritagliare una ampia autonomia per dedicarmi a quello che non ho fatto in tempo ad approfondire durante i 44 anni di lavoro nella scuola. Però, continuo comunque a condividere gran parte delle istanze del Gruppo e molte delle loro iniziative. Una scuola del merito deve essere una scuola credibile, seria, stimolante e che valorizzi appunto il merito perché solo attraverso questo si può dare a tutti la possibilità, come afferma la Costituzione, di poter accedere ai più alti livelli dello Stato e delle professioni che anche la società ci offre. Il merito è una garanzia affinché si consolidi la democrazia; se non c’è la valorizzazione del merito vincono i “soliti raccomandati”, i prepotenti, coloro che nel mancato rispetto delle regole trovano sempre la strada per accaparrarsi, senza merito appunto, i posti di comando . Una scuola seria deve dare a tutti, anche ai ragazzi del carcere minorile, la possibilità di potersi affermare nella vita con onestà.
Anche dopo il suo pensionamento ha mai smesso di occuparsi della scuola?
No, non ho mai smesso. Intervengo ogni tanto su alcune riviste e su un quotidiano online, mi occupo di scuola soprattutto leggendo molto di quanto si scrive sui suoi problemi sia seguendo la vita scolastica anche attraverso i racconti dei colleghi e soprattutto di studenti appartenenti al circolo dei parenti e degli amici. È molto importante non abbandonare l’interesse per quella che è la vera struttura che prepara il futuro del paese. Se la scuola è seria ci sono maggiori speranze che il futuro sia migliore rispetto al presente; se non lo è, vuol dire che ci si accontenterà di poco e le future generazioni, come la vostra, potrebbero allora andare incontro a una società non proprio bella. Spero naturalmente che ciò non avvenga.
Come vede la situazione creatasi con la pandemia, la DAD, le chiusure e le riaperture? Pensa che sia stato opportuno riaprire subito le scuole?
Assolutamente sì. Mi dispiace che la scuola italiana sia stata una di quelle dei paesi OCSE più a lungo chiusa. Mi sono battuto, scrivendo per il Corriere fiorentino e intervenendo in trasmissioni radiofoniche e televisive per esortare chi di competenza, affinché la scuola fosse riaperta durante i mesi tardo-primaverili del primo anno della pandemia. L’avrei tenuta aperta anche durante tutto il mese di giugno, per recuperare i mesi passati in DAD. È stato un periodo, quello, che non vorrei aver vissuto da ragazzo: essere costretti in casa e non essere liberi di avere una vita sociale con i propri coetanei e coetanee e con gli adulti, soprattutto se maestri di vita, è quanto di peggio possa capitare a un adolescente, a un giovane e a un bambino. Sono innanzitutto questi rapporti che ci fanno crescere e maturare in socialità e umanità. Pensi poi quanti danni la Dad ha causato a bambini e ragazzi con famiglie svantaggiate.
Quale insegnamento/messaggio è il più importante secondo lei da lasciare agli studenti e in generale ai ragazzi?
Quando ero un ragazzo, quando avevo la vostra età, chi mi ha condizionato maggiormente, oltre la famiglia naturalmente, sono stati appunto i miei compagni e gli adulti, a partire dagli insegnanti. E questi ultimi diventavano veri e propri maestri e maestre di vita quando ci rendevamo conto ( anche i bambini piccolissimi sono in grado di avvertirlo ) come chi avevamo di fronte fosse preparato, motivato e il primo a credere in quello che faceva. Persone che ci trasmettevano quotidianamente la loro passione per la loro professione e così facendo quella loro passione ci sarebbe arrivata e addirittura l’avremmo declinata per tutta la nostra vita futura. Questa è per me la dote migliore che un insegnante possa offrire ai suoi allievi: un esempio quotidiano di lavoro ben fatto perché innanzitutto è attraverso l’esempio ( buono) che si insegna la vita. So per certo, per vostra fortuna, che non vi mancano esempi del genere.

Il prof. Valerio Vagnoli.
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