Si è da poco conclusa la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021 a Glasgow, in Scozia. Uno dei punti fondamentali che sono stati toccati, anche se passato un po’ sottobanco, è stata la proposta di eliminare completamente la produzione e la vendita di veicoli leggeri con motore termico, alimentati quindi a diesel o benzina, entro il 2035 per i paesi più sviluppati ed entro il 2040 per quelli dove le condizioni per la transizione energetica non sono ancora ideali. In realtà in Europa un piano di questo genere era stato già fatto, il “Fit for 55”, che prevede il raggiungimento entro il 2030 degli obbiettivi del Green Deal, in particolare la riduzione delle emissioni di carbonio del 55% rispetto ai livelli del 1990, con l’obbiettivo di arrivare alla “carbon neutrality” per il 2050.
Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Aie) il settore automotive, e più in generale quello dei trasporti è il responsabile di circa un quarto del totale delle emissioni globali di gas serra; numeri che non sono da poco. Allora per quale motivo due tra gli stati in cui le vendite di veicoli sono le più alte (Cina e Stati Uniti) non hanno partecipato, e tra i maggiori esportatori di automobili (Francia, Germania, Italia e Spagna) nessuno si è dichiarato favorevole allo stop totale sull’impiego di motori a scoppio?
Ogni membro partecipante ha le proprie ragioni, ma alla COP26 erano presenti non solo i rappresentanti di ogni stato, ma anche di aziende e marchi, e alcune rappresentanze locali, tutti coinvolti in questa questione. Per l’Italia solo Firenze, Roma e Bologna hanno approvato l’elettrificazione entro il 2035; mentre uno dei più grandi gruppi automobilistici di sempre, ovvero Volkswagen, che comprende Volkswagen, Lamborghini, Bentley, Audi, Seat, Skoda, Bugatti, Porsche e Ducati, avrebbe indicato l’opportunità di rispettare le singole esigenze dei Paesi ed avrebbe posto l’accento sul no della Cina agli accordi sullo stop all’impiego del carbone per la produzione energetica.
Il principale motivo per il quale i “big” dell’automotive si sono opposti a questa proposta lo spiega il nostro ministro dello sviluppo Giancarlo Giorgetti, che afferma:
“Dobbiamo affrontare la transizione ecologica con un approccio tecnologicamente neutrale: decarbonizzazione non può diventare sinonimo di elettrico. Così facciamo diventare ideologico un percorso che invece deve essere razionale. Tutti vogliamo combattere l’inquinamento, vivere in un mondo più sano e compatibile con l’ambiente e per questo non possiamo bocciare altre strade in modo pregiudiziale. Devono proseguire ricerca e studio su altri combustibili non fossili, sui quali le nostre imprese stanno facendo investimenti importanti: non possono essere esclusi a priori.”
In sostanza il problema di ricorrere all’elettrificazione totale crea svariati altri problemi, primo fra tutti la chiusura inevitabile di molte imprese che hanno investito su nuovi tipi di carburanti che rispettino l’ambiente ma che non necessitino di batterie, come biocarburanti o carburanti sintetici. Inoltre una soluzione di questo genere implicherebbe una collaborazione tra governi e case automobilistiche molto più stretta di quella attuale, e per questo motivo la maggior parte dei produttori di veicoli sono diffidenti; basti pensare che per attuare questo piano servirebbero colonnine di ricarica molto più ravvicinate, poiché dovrebbero sostituire gli attuali distributori di carburanti fossili, ma se i governi non procedono alla realizzazione di tali infrastrutture manderanno in crisi anche i costruttori.
Inoltre bisognerebbe considerare che “buttarsi a capofitto” sull’elettrico potrebbe essere una scelta avventata in quanto la produzione di veicoli elettrici è la parte meno sostenibile del loro ciclo di vita, e uno smaltimento ecologico del litio (principale componente delle batterie) non è ancora stato trovato.
Date queste considerazioni, bloccando ogni altro tipo di progresso che non sia l’alimentazione elettrica, l’obiettivo di raggiungere la “carbon neutrality” risulta quasi un’utopia.