“Arbeit macht frei” – queste erano le parole che i deportati vedevano all’ingresso dei campi di sterminio nazisti, alla porta dell’Inferno; la traduzione letteraria di questo motto sarebbe “il lavoro rende liberi”, ma il vero significato è “lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”.
Oggi, 27 gennaio, è il Giorno della Memoria; oggi, 76 anni fa, la sessantesima armata dell’esercito sovietico liberò il campo di concentramento di Auschwitz, la più feroce macchina da morte nazista. Il Giorno della Memoria, celebrato dal 2000 in Italia e dal 2005 nel resto del mondo, rappresenta la data simbolo della commemorazione della Shoah e di tutte le persone deportate, imprigionate e uccise dal nazismo.
Comprendere non è facile, ma conoscere fin dove si può spingere la natura malvagia dell’uomo è fondamentale. Ma come è stato possibile arrivare alla Shoah, come è stato possibile arrivare ad uccidere milioni e milioni di ebrei, zingari, omosessuali e dissidenti per un’unica ragione: la diversità?
In Germania, dopo l’assunzione del potere da parte di Hitler nel 1933, iniziarono le violenze contro gli ebrei, la “giustificazione” propagandistica, oltre ai luoghi comuni, era che la Germania aveva perso la Prima guerra mondiale a causa degli ebrei; nel 1935 furono emanate le Leggi di Norimberga, attraverso le quali gli ebrei non erano più considerati cittadini tedeschi e vennero licenziati ed estromessi dalla vita pubblica. Sinagoghe, case e negozi ebrei furono devastati nella notte dei cristalli, tra il 9 e il 10 novembre 1938. Con l’inizio della seconda guerra mondiale gli ebrei iniziarono ad essere rinchiusi e i campi di sterminio iniziarono ad essere progettati e realizzati: la soluzione finale della questione ebraica, il genocidio degli ebrei d’Europa, voluto e tenuto segreto da Hitler, ebbe inizio.
In Italia nel 1938 furono emanate dal regime fascista le leggi razziali contro gli ebrei; l’8 settembre 1943, i tedeschi invasero la parte centro-settentrionale della penisola: nell’autunno di quell’anno si scatenò in maniera particolarmente violenta la persecuzione nei confronti della popolazione ebraica residente in tutte le regioni italiane poste sotto l’occupazione dell’esercito tedesco. Effettivamente, la violenza contro gli ebrei fino ad allora non era ancora arrivata allo sterminio, come in Germania. La presa del potere in Italia da parte dei nazisti, impose su tutte la zona di occupazione le leggi di guerra tedesche che già prevedevano la deportazione in massa verso i campi di concentramento tedeschi. Il 18 ottobre 1943 moltissimi ebrei appartenenti al ghetto di Roma, furono deportati ad Auschwitz. E nella nostra Firenze?
A Firenze, l’intera comunità ebraica riconosceva come guida, indiscussa ed assoluta, un giovane medico, Nathan Cassuto, il rabbino della città. Egli, fin dall’8 settembre si recò casa per casa per avvertire tutti dei pericoli incombenti. In aiuto della comunità ebraica si mossero anche segretamente figure di primo piano della Chiesa fiorentina, come il cardinale Elia Dalla Costa, il parroco di Varlungo Leto Casini, monsignor Giulio Facibeni (fondatore dell’Opera della Madonnina del Grappa) e il padre domenicano Cipriano Ricotti. Il 6 novembre le SS e la Gestapo si diressero alla Sinagoga di Firenze per catturare la comunità ebraica, che però era stata avvertita da Nathan Cassuto, ma più di 300 ebrei furono arrestati e deportati ad Auschwitz; di loro non fece più ritorno nessuno.
La Comunità Ebraica di Firenze e il Comune di Firenze durante lo scorso gennaio hanno posato le Pietre d’Inciampo (un’iniziativa dell’artista tedesco Gunter Demnig per depositare nel tessuto urbanistico e sociale delle città europee, una memoria dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti) nel ricordo degli ebrei fiorentini uccisi nei lager nazisti. Le Pietre d’Inciampo sono l’ulteriore dimostrazione di quanto Firenze ci tenga a coltivare la memoria. Queste pietre sono collocate in diverse strade, di fronte alle abitazioni dei deportati: in Via del Gelsomino, in Via del Proconsolo, in Via Ghibellina, in Piazzale Donatello, in piazza d’Azeglio, in via Bovio, in piazza delle Cure e in via Marsala.
Oggi è importante ricordare e riflettere, perché la storia di discriminazioni, oppressioni e stermini non è purtroppo qualcosa di unico. Durante la Prima Guerra mondiale, in Turchia, la popolazione armena fu sterminata dall’Impero Ottomano; subito dopo la seconda guerra mondiale la popolazione italiana in Dalmazia fu duramente colpita dai partigiani jugoslavi, nel cosiddetto eccidio delle foibe. Nell’Unione Sovietica di Stalin milioni di persone furono deportate e uccise nei gulag, che continuarono ad esistere fino al 1987. A metà degli anni ’70 si verificò un altro drammatico genocidio, quello dei cambogiani, effettuato dalla dittatura comunista.
In Corea del Nord sono ancora oggi attivi i Kwanliso, campi di concentramento in cui sono detenuti tra le 80.000 e le 120.000 persone, prigionieri politici che non hanno avuto il diritto ad un processo. Anche in Cina ci sono tuttora persone appartenenti a minoranze etniche detenute in campi di concentramento, chiamati Laogai.
Oggi, 27 gennaio, tutto il mondo deve fermarsi e pensare alle crudeltà commesse dall’uomo contro coloro che ha considerato diversi, pensare alle famiglie degli ebrei uccisi, che hanno sempre i segni di una ferita che rimarrà per sempre aperta.
“la singolarità del fatto non impedisce l’universalità della lezione che se ne trae” – Tzvetan Todorov