La chiusura della scorsa stagione calcistica è stata tra le più travagliate di sempre, tra dibattiti, continui rinvii delle partite e confusione generale riguardo a regolamentazioni e provvedimenti sanitari da attuare con urgenza. Che il calcio italiano sia uno dei pilastri del bilancio del nostro paese ad oggi è diventato il segreto di Pulcinella: secondo un bilancio integrato della FIGC lo sport più influente e popolare al mondo, in Italia, produce circa 4,7 miliardi di euro annui, dei quali 1,2 sono destinati al fisco, generando circa il 12% del PIL del calcio mondiale. Gli ingranaggi di questa imponente macchina economica che produce costantemente ricchezza, non devono assolutamente fermarsi e fare la ruggine. C’è un però, ovviamente: la condizione sine qua non perché ciò avvenga è la garantita condizione di salute per tutti i giocatori, e non solo. Così, a seguito di consultazione con il comitato tecnico-scientifico, nasce il protocollo covid, fondamentale per riprendere con regolarità la stagione calcistica italiana, linfa vitale per milioni di giocatori, tifosi e fantallenatori in tutta Italia, ma sempre mettendo al primo posto la salute durante questa pandemia che sta mettendo a dura prova il mondo intero. Il punto è: come funziona questo delicatissimo sistema sanitario? Come si svolgono i controlli ai club per stabilire se le regole vengono rispettate o meno?
La risposta si trova nelle mani della FIGC. Per verificare la corretta condotta delle società sportive, vengono inviati, senza preavviso, dai due ai tre ispettori della Procura Federale, dei quali uno nei panni di specialista sanitario. Una volta ricevuti dal responsabile della salute quest’ultimo accompagna gli ispettori nei vari locali interni come ristorante, spogliatoi, palestra, centro massaggi. Deve esserci la possibilità di mantenere il distanziamento, gel disinfettante a disposizione e una cartellonistica adeguata in tutte le aree. Ad esempio, all’entrata del ristorante vengono igienizzate le mani, deve essere poi dotato di divisori in plexiglass, e di un servizio self service che eviti di accalcarsi al banco. Dopo un rapido sguardo al campo, dentro al quale si può accedere da una sola entrata e con tanto di misurazione della temperatura con termoscanner per poi lasciarlo da un corridoio appositamente adibito all’uscita, si passa alla fase più importante del controllo, ovvero il “timing”.
Si tratta del controllo di tutti i tamponi e test sierologici a partire dal tempo zero, anche detto giorno del raduno, che equivale alla data del primo allenamento stagionale della squadra, che, per fare un esempio, nel caso della Fiorentina sarebbe il 28 agosto. Questo check non vale solo per la rosa, bensì per tutto il gruppo squadra, che comprende allenatore, i vice, i preparatori tecnici e atletici, fisioterapisti, massaggiatori, persino magazzinieri e chi più ne ha più ne metta, solitamente per un totale che si aggira intorno ai 60 componenti. Si tratta di un numero consistente, ma quanti test e ogni quanto tempo vengono svolti?
Si parte da un tampone preventivo due o tre giorni prima del tempo zero, per poi passare ad una sequenza fitta e scandita: un tampone ogni quattro giorni e un test sierologico ogni due settimane. Misura forse esagerata, e infatti, dal 28 settembre in poi il protocollo ha subito qualche modifica: invariata la cadenza del sierologico, ma, per quanto riguarda i tamponi, è necessario un test entro 48 ore prima dell’incontro e il risultato deve essere ricevuto dalla società entro 4 ore dall’inizio del match, altrimenti il giocatore sarà escluso. Non finisce qui, perché ispirandosi ai provvedimenti dell’NBA americana, nel caso ci sia un positivo nel gruppo squadra, scatta la “bolla”: isolamento obbligatorio e, per la durata degli stabiliti dieci giorni di quarantena, viene effettuato un tampone ogni 48 ore. Al gruppo squadra, inoltre, è concesso di percorrere solo il tragitto da abitazione o albergo dove si risiede fino al campo. Usando sempre da esempio il club fiorentino che ha rilevato un positivo il 20 ottobre, si continua con test a tappeto prima e dopo la partita contro l’Udinese domenica 25 ottobre.
Si tratta di un processo costosissimo per le società che, nel caso si parli di un club di serie A dovrà sommare alle spese di base quelle della primavera, per un totale che si assesta in media nell’ordine delle centinaia di migliaia di euro al mese e quindi più di un milione l’anno: ovviamente le società si appoggiano a laboratori privati, di conseguenza non si affidano all’aiuto economico dello stato, ben più necessario in altri settori; anche per questo motivo le ASL non devono in alcun modo “intromettersi” nelle questioni sanitarie legate al calcio, come successo nel caso del Napoli al quale è stata impedita la partenza per Torino per disputare il match con la Juventus a causa di un piccolo focolaio in rosa, il che ha comportato vittoria a tavolino per i bianconeri e un punto di penalità per la squadra partenopea. Non va tralasciato il fatto che nel caso non vengano rispettate le norme, le punizioni partono da salatissime multe, per poi passare da sottrazione di punti in classifica, retrocessione all’ultimo posto in campionato fino a, nel caso le regole vengano infrante volontariamente per portare un vantaggio al club, squalificazione ed esclusione dalla competizione.
Inutile strappare qualche eccezione come ha cercato di fare la Juve che, per non rinunciare al proprio top player Cristiano Ronaldo, positivo al covid, nella partita di Champions contro il Barcellona, ha tentato di concordare la sua partecipazione nel caso la carica virale fosse stata considerata sufficientemente bassa, ma ha ricevuto un rifiuto. Stiamo parlando infatti di un protocollo rigido, quasi esagerato, che comunica l’indispensabilità di trainare questa pesantissima quanto irrinunciabile slitta che è il calcio italiano, ma si sta rivelando un punto d’incontro onesto ed efficace.