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Il primo marziano sarà un fungo di Chernobyl? Fantascienza ma….non troppo!

Da sempre l’uomo ha guardato allo spazio come a un incontro tra passato e futuro, non smettendo mai di provare a solcarlo. L’atterraggio dell’uomo sulla luna e la capacità di raggiungere nuovi pianeti tramite sonde spaziali hanno poi instaurato nella nostra mente l’idea di una colonizzazione dei pianeti abitabili della nostra galassia in modo tale da poter usufruire anche delle loro risorse. Nonostante le numerose ricerche però, ciò sembrava essere ancora lontano dalla nostra portata, in quanto non è solo difficile portare le persone a vivere su un altro pianeta e fornire loro le risorse necessarie, ma anche proteggerle dalle radiazioni, in gran parte gamma, dalle quali verrebbero colpite, poiché non esistono pianeti a noi conosciuti che presentino una atmosfera simile a quella terrestre in grado di farci da scudo contro le radiazioni e i meteoriti e di mantenere stabile la temperatura del pianeta.

Di fatto tutti gli studi fatti sui viaggi nello spazio sembravano quindi incompleti fino a quando, alla fine di luglio di quest’anno, le ricerche condotte sulla International Space Station (ISS) hanno fornito risultati molto incoraggianti.

Sulla stazione spaziale infatti era in corso uno studio relativo ad un particolare fungo scoperto nel 1991 nella ex-centrale nucleare di Chernobyl vicino a Kiev (ex URSS) distrutta nel 1986 dall’esplosione di un reattore nucleare e considerato il più grave incidente nucleare mai avvenuto.

Il fungo ha attirato l’attenzione in quanto le sue capacità consistono nel convertire le radiazioni in energia chimica. Questo studio, condotto in collaborazione dai ricercatori di Nasa Ames Research Centre, Università del North Carolina e Stanford, anche se non ancora sottoposto a revisione, presenta già risultati sbalorditivi. Il fungo, chiamato scientificamente Cladosporium Sphaerospermum, riesce infatti ad assorbire e convertire un quantitativo di raggi gamma migliaia di volte superiore a quello terrestre.

Gli studi condotti sulla ISS hanno poi rivelato che facendo sviluppare uno scudo di 1,7mm intorno ad un soggetto nello spazio, il livello di radiazioni da esso subite durante un lasso di tempo di circa un mese, si riduce fino ad un massimo del 5,4%. Ciò significa che in proporzione uno strato di 21 cm di questo particolare fungo potrebbe annullare l’annuale apporto di radiazioni che il corpo subirebbe se si trovasse su Marte.

Questa scoperta, considerata dagli scienziati la chiave per la vita sul pianeta rosso, ha in serbo però ancora qualche sorpresa per noi: approfondendo gli studi è stato ipotizzato che bilanciando adeguatamente il fungo con il più comune materiale presente su Marte (regolite marziana) in una unica soluzione, anche uno strato di soli 9 cm basterebbe a proteggerci. Inoltre se lo scudo venisse danneggiato, anche gravemente, dai raggi gamma basterebbero pochi giorni per la sua riattivazione, in quanto il fungo che in parte lo compone ha grandi capacità rigenerative ed essendo attratto dalle radiazioni la “ferita” sarebbe rimarginata rapidamente.

Lo scudo risulterebbe inoltre pratico da creare e poco costoso rispetto alle precedenti ipotesi ideate per la protezione dai raggi solari, poiché per fare sì che si sviluppi basterebbe impiantarne pochi grammi, a differenza di altri materiali come l’acqua che, anche se potente elemento contro le radiazioni, diventerebbe troppo “pesante” e in caso di danneggiamento riparabile lentamente, per le difficoltà di rifornimento e per il suo trasporto complicato e oneroso. È inoltre stato scoperto che il fungo è in grado di crescere in condizioni estreme, di conseguenza l’idea degli scienziati sarebbe di costruire una coltivazione in loco, in modo tale da fare crescere il fungo ed assemblarlo direttamente sul pianeta destinatario.

Ovviamente la ricerca non si è posta un limite con il raggiungimento di queste conclusioni. È stata ipotizzata la possibilità di unire alla coltivazione del fungo un trattamento di ingegneria metabolica attraverso l’integrazione della biologia sintetica nel suo programma di sviluppo. Questo porterebbe anche all’utilizzo di metodi avanzati di “produzione additiva” quali la biostampa 3D, che permetterebbe la creazione di materiali ampiamente autonomi e auto-rigenerativi.

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I risultati dell’intero studio, che ha affascinato migliaia di scienziati, sono riportati e pubblicati sulla rivista open access BioRxiv.

L’importanza della scoperta di questa nuova fonte di energia rinnovabile, acquista inoltre rilevanza anche in funzione del fatto che anche questo anno abbiamo già raggiunto il così detto Earth Overshoot Day, che rappresenta il giorno dell’anno in cui la terra esaurisce le risorse annuali che riesce a rigenerare.

Le potenzialità di questo fungo, considerate rivoluzionarie dagli studiosi di questo ramo della scienza, permettono quindi all’umanità di fare un altro piccolo passo verso lo spazio e l’evoluzione.

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