Giosuè Carducci è il poeta italiano che poco prima di morire, nel 1906, ottenne il premio Nobel per la letteratura con questa motivazione: “non solo il riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all’energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica”. Da ciò si può facilmente intuire quale fosse la sua importanza un tempo e quanto sia doveroso ricordarlo oggi, a distanza di 185 anni.
Egli nacque il 27 luglio 1835 a Valdicastello, vicino Lucca, e morì a Bologna per una broncopolmonite il 16 febbraio 1907. Trascorse la sua infanzia a Bolgheri e in questi 10 anni la sua famiglia visse in povertà tanto che non gli fu possibile frequentare la scuola. Fu così che il padre incaricò il sacerdote Giovanni Bertinelli di insegnargli il latino, finchè non si trasferì nel 1849 a Firenze. Qui iniziò il suo vero e proprio percorso di studi e negli anni successivi all’Università, partecipò agli incontri della società “Amici Pedanti”, che lo avvicinarono al classicismo. La sua vita non fu però facile, poichè dopo poco morirono il padre e uno dei suoi fratelli, e nel 1870 lo lasciò anche la madre e uno dei suoi figli. In questo periodo visse a Bologna, dove ottenne una cattedra all’università in letteratura italiana. A 20 anni, nonostante le sue gravi perdite familiari, era già un poeta affermato e un professore molto severo, ma capace anche di scherzare e di stimare i suoi studenti tra cui Giovanni Pascoli. Così come Pascoli ebbe come fonte di ispirazione Carducci, anche quest’ultimo fu influenzato da poeti classici come Virgilio e Orazio, da poeti moderni quali Foscolo e Leopardi e persino da Dante.
Carducci fu critico e poeta, che ricordiamo con numerose raccolte poetiche che ci ha lasciato: “Giambi ed Epodi”, “Odi Barbare”, “Le Rime”, “Juvenilia”, “Levia Gravia” e molte altre. Proprio da queste opere possiamo segnalare quali sono stati i temi cruciali della poesia carducciana, che si svolgevano attraverso un linguaggio cupo alternato a quello aulico tipico del suo classicismo. Tra questi ricorreva quello della nostalgia per il passato, in cui egli dava molto spazio alla natura, poiché richiamava la sua infanzia e il suo mondo maremmano (su questo tema possiamo ricordare “Pianto Antico”). Altro tema importante che si ripercuote nelle sue liriche, è stata la passione per l’antichità classica e la storia. Nell’inno “A Satana” invece troviamo un Carducci che esalta il piacere della materialità, dell’ebbrezza e del libero arbitrio, che sono impersonificati da Satana. Anche se quest’opera è stata definita “maledetta”, fu un semplice frutto di una notte insonne del 1863 declamata durante un banchetto.
Da una sua affermazione vediamo come questo personaggio, oltre ad essere un grande autore, abbia anche un lato più goliardico e mondano: “Sono superbo, iracondo, villano, soperchiatore, fazioso, demagogo, anarchico, amico insomma del disordine ridotto a sistema; e mi è forza fare il cittadino quieto e da bene”. Carducci era amante del buon cibo e organizzava infatti grandi mangiate con i suoi amici di Castagneto e andava spesso in un’osteria di Desenzano, dove è stata murata una lapide in suo onore. Un’altra curiosità è che la sua collaborazione alla “Cronaca Bizantina” veniva pagata con barili di Vernaccia e questo è una prova del suo amore per il vino. Egli era inoltre appassionato di briscola e scopone ed essendo la sua, un’indole prepotente che lo portava a credere di essere un grande giocatore, i suoi amici lo lasciavano vincere. Sappiamo addirittura che era capace di non scrivere nemmeno un verso per due o tre settimane nel caso avesse perso una partita. Egli è stato anche oggetto di critiche molto aspre come quella di Mario Rapisardi, che non perdonò il “tradimento” degli ideali giovanili con l’adesione alla monarchia. Un’altra è stata mossa da Alfredo Oriani, che fu però uno di quelli che, in futuro, hanno riservato un pensiero affettuoso per il poeta.
In occasione dell’anniversario della sua nascita ricordiamo la sua celebre frase: “Colui che potendo esprimere un concetto di dieci parole ne usa dodici, io lo ritengo capace delle peggiori azioni”.