23 maggio 1992, ore 17:48, il magistrato Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo atterravano a quell’ora all’aeroporto Punta Raisi in Sicilia dove ad attenderli trovarono 3 Fiat Croma pronte a scortarli fino a casa.
Era ormai una consuetudine per il giudice siciliano spostarsi con tanto di scorta, fin dal 1980 per l’esattezza, da quando si era cimentato per la prima volta con il suo più grande nemico: la Mafia.
Ed in particolare con quella parte di mafia conosciuta come Cosa Nostra: un’organizzazione criminale, radicata principalmente nel suo paese natale, che deteneva in quegli anni il commercio mondiale della droga di cui reinvestiva gli enormi proventi in attività lecite dopo averli opportunamente “ripuliti” attraverso le banche.
Questa criminalità non si limitava a controllare solamente le zone siciliane, ma, tramite una ramificazione internazionale, riusciva ad arrivare anche in paesi esteri come l’America, e, perfino a contaminare la stessa giustizia, insabbiando dall’interno le prove che potevano incriminare eventuali boss ed infiltrandosi in alcuni ambienti politici.
Fu proprio questa aura di inaccettabile imbattibilità che spinse Falcone a non tirarsi indietro, ma anzi a continuare la sua lotta con maggior vigore.
Tramite una nuova metodologia di indagine, estese le ricerche al campo patrimoniale, riuscendo a superare il segreto bancario, e ottenne la collaborazione di banche e finanziarie nazionali ed estere per ricostruire i movimenti di capitali sospetti, riuscendo così per la prima volta ad incriminare con una condanna esemplare il boss Spatola.
Venne successivamente inserito, insieme al celebre amico Paolo Borsellino, che subì sfortunatamente lo stesso destino, nel “pool antimafia”, concepito proprio per affrontare la complessità del fenomeno di Cosa Nostra.
Il pool collezionò importanti successi fino al 1986, quando giunse al suo traguardo definitivo: il Maxiprocesso.
Il Maxiprocesso prevedeva ventidue mesi di udienze in un’aula bunker appositamente costruita in cemento armato, in grado di resistere anche ad attacchi missilistici, e di dimensioni tali da poter contenere il gran numero di imputati e permettere ai giudici di lavorare in sicurezza.
Le accuse ascritte agli imputati comprendevano 120 omicidi, traffico di droga, estorsione e il reato di associazione mafiosa. Il processo si concluse con 19 ergastoli e 2665 anni di carcere a 339 imputati. Fu anche grazie alle confessioni del pentito Tommaso Buscetta se il tribunale riuscì a fare giustizia.
Per la prima volta Cosa Nostra si era dimostrata battibile, la violenza con la quale aveva controllato e spaventato i paesi del basso mezzogiorno aveva perso contro la volontà di alcuni onesti cittadini di alzare la testa e porre fine alle loro angherie.
Una volta aperto il “vaso di Pandora” è però impossibile richiuderlo, ed è anche impossibile sfuggire al furioso impeto che fuoriesce da esso; era infatti inevitabile la reazione dell’organizzazione mafiosa a una tale offesa, forte anche dello smantellamento del pool, avvenuto poco dopo il processo.
La luce di Falcone, che come un faro aveva illuminato il burrascoso mare di terrore in cui era gettata la Sicilia dell’epoca, si spense proprio il 23 maggio del 1992, dieci minuti dopo essere sceso dall’aereo, alle 17:58 in prossimità dello svincolo verso Capaci sull’autostrada A29. Una galleria appositamente scavata sotto la strada, e riempita con 500 kg di tritolo, è stata fatta saltare in aria non appena la scorta di Falcone, pedinata a distanza dai suoi assassini, si è trovata sopra di essa, uccidendo, oltre al giudice, anche la moglie, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, membri della scorta.
Il corpo di Falcone fu portato inutilmente in ospedale e il magistrato venne dichiarato morto dopo poche ore.
Dopo aver notato come anche il più giusto degli uomini sia stato ucciso a sangue freddo, per molte persone la domanda più spontanea potrà sembrare: “ma ne è valsa davvero la pena?” Per Falcone molto probabilmente sì. Lui infatti sapeva di essersi immerso in una cosa che molto probabilmente lo avrebbe portato alla morte, e se avesse pensato solo ed esclusivamente alla propria incolumità si sarebbe tirato indietro, come in molti avevano fatto prima di lui. La vita che gli stava davvero a cuore era infatti quella dei suoi concittadini che per anni avevano vissuto un ingiusto incubo sotto la tirannia della criminalità; gli interessava il benessere del suo paese e di tutta l’Italia, e per fare ciò serviva un messaggio forte, una personalità forte, che avesse il coraggio di sovvertire la problematica situazione, a qualunque costo.
Non c’è differenza tra un eroe e un codardo, hanno entrambi la stessa paura, ma è ciò che l’eroe fa che lo rende un eroe, ed è ciò che il codardo non fa che lo rende tale.
Falcone di paura ne aveva, altroché se ne aveva, visto che era il più esposto al rischio, ma è proprio quello che ha fatto che lo ha reso un eroe, il nostro eroe.
Fonti: www.fondazionefalcone.it