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Il Covid-19 porta via anche l’architetto Vittorio Gregotti

La mattina del 15 marzo 2020, a Milano, si è spento uno dei maggiori maestri dell’architettura del XX secolo: Vittorio Gregotti.

Era ricoverato nella clinica San Giuseppe di Milano per una polmonite e pare sia scomparso a causa di peggioramenti causati dal coronavirus.

Nato il 10 agosto 1927, a Novara, ha dato origine a 1600 progetti, distribuiti in 20 paesi nel mondo; tra i più rappresentativi ricordiamo gli stadi di Barcellona e Genova, il teatro degli Arcimboldi a Milano, il quartiere Zen di Palermo e il nuovo quartiere residenziale di Shanghai.

Ha intrapreso la sua prima esperienza lavorativa all’età di vent’anni, a Parigi, presso lo studio dei fratelli Gustave, Claude e Auguste Perret.

Laureato in architettura nel 1952 al politecnico di Milano, nel 1974 fonda la Gregotti Associati, di cui era presidente, ovvero uno studio di progettazione architettonica. Nello stesso anno si fa strada nella cultura progettuale di tipo mondiale iniziando a collaborare con alcune personalità internazionali, quali il giapponese Hiromichi Matsui e l’argentino Bruno Viganò.

In un’intervista di tre anni fa ha raccontato: “Io concepisco l’architettura come qualcosa in cui i materiali con cui si lavora sono molto vasti e non sono solamente il mattone o il cemento armato. Sono anche i materiali che rappresentano una sintesi della propria memoria, dei propri desideri, delle differenze che l’architettura vuole proporre rispetto al passato.”

Da queste frasi possiamo renderci conto di quanto questo mestiere fosse importante per lui, di come per l’architetto Gregotti il progetto dovesse essere necessariamente contestualizzato nell’ambiente in cui doveva avere luogo. Il suo cruccio nasceva dalla convinzione che la generazione dei nuovi architetti si limitasse a un mero esercizio di design a prescindere dall’ambiente circostante.

Oltre ad essere un noto e capace architetto, egli ha scritto anche molti libri in cui racconta il suo mestiere, tra cui Il territorio dell’architettura (1966), Dentro l’architettura (1991), Recinto di fabbrica (1996).

Di lui viene inoltre detto che sapesse spronare molto i giovani, in una delle ultime interviste dice: “Ormai ci chiedono solo di meravigliare. Ai giovani invece vorrei dire di non allontanarsi dalle nostre radici.”

Non ci resta che sperare che i suoi consigli vengano presi ad esempio per provare a vivere in futuro in ambienti in cui l’armonia abbia un posto di primo piano.

(Fonti: FanPage, Il Fatto Quotidiano, La Nazione, Wikipedia)

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