“Quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’ orrore. L’indifferente è complice.”

Queste sono le parole di Liliana Segre, sopravvissuta agli orrori di Auschwitz e senatrice a vita, il 27 gennaio 2020, Giorno della Memoria.

Da quando è stato instituito nel 2005 ogni anno viene celebrata la liberazione di Auschwitz da parte delle truppe dell’Armata Rossa e simbolicamente la fine dell’Olocausto.

L’apertura dei cancelli del campo di concentramento mostrò al mondo intero non solo molti testimoni della tragedia, ma anche gli strumenti di tortura e di annientamento utilizzati nei lager nazisti.

Quest’anno ci sono stati i discorsi e le parole della senatrice, del Papa, e di politici di tutto il mondo e di alcuni superstiti per commemorare la tragedia, oltre che alle visite al campo di Auschwitz-Birkenau da parte di duecento sopravvissuti provenienti da ogni parte del mondo e 50 delegazioni da altrettanti stati.

Tra dolore, orrore, solennità e rispetto trovano posto tante riflessioni, perché oltre a onorare le vittime e mantenere la memoria dell’evento ci si chiede in primo luogo perché sia potuto accadere.

È facile dare la colpa agli altri: a Hitler, ai nazisti, ai fascisti, ai tedeschi, all’odio.

Le parole di Liliana ci ricordano invece della grande colpa degli indifferenti, di chi sa ma non agisce.

Possono sembrare banali ma sono la risorsa più grande a disposizione per impedire che tutto ciò accada di nuovo.

“Due anni fa abbiamo assistito al genocidio dei Rohingya e nessuno se ne è curato”, ha affermato Piotr Cywinski, responsabile del Museo di Stato Auschwitz. “Lo stesso accade in Cina, con centinaia di migliaia di uiguri chiusi nei “campi di rieducazione”, mentre crescono le violenze contro gli ebrei. Durante il genocidio in Ruanda negli anni Novanta si levavano migliaia di voci di protesta, mentre oggi c’è solo silenzio”.

Casi analoghi sono anche i lager comunisti, il genocidio degli Armeni, la guerra in Kosovo, i massacri delle foibe, i lager in Siria e tanti altri.

La memoria sta infatti anche nel saper riconoscere casi simili di indifferenza e odio e attingere agli insegnamenti della storia per scongiurarli.

Una grande parte di questo lavoro è svolta dalle scuole, anche se non sempre in maniera adeguata.

Spesso infatti gli studenti non riescono a comprendere fino in fondo la pesantezza dell’orrore accaduto e tra le varie cause molti ritengono che non venga attualizzato o approfondito abbastanza, data l’urgenza di concludere i programmi scolastici e la ripetitività di certi argomenti e frasi fatte che non aiutano a considerare seriamente l’evento.

Parole come “nazista”, “fascista”, “comunista” vengono spesso utilizzate con leggerezza, anche in politica, e l’assuefazione a questi termini è pericolosa in un mondo in cui basta un click per accusare qualcuno o per creare fraintendimenti e fake news.

Il 27 gennaio rappresenta una data simbolica, ma non corrisponde alla fine dell’odio.

Storicamente la Seconda Guerra Mondiale termina il 2 settembre 1945 dopo Hiroshima e Nagasaki, mentre la fine della Guerra Fredda, strascico della Seconda, viene convenzionalmente fatta coincidere con la caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989) e la successiva dissoluzione dell’Unione Sovietica (26 dicembre 1991).

Per alcuni il clima di odio e tensione non è finito, mentre secondo un sondaggio del 2019 dell’Anti-Defamation League in Germania, il 42% concorda sul fatto che “gli ebrei parlano ancora troppo di ciò che è accaduto nell’Olocausto”.

Nel 2019 sono accadute varie sparatorie in sinagoghe in Germania, San Diego e Pittsburgh oltre a tentativi falliti; molte di esse sono state accertate come casi di anti-semitismo.

In una giornata come questa in tempi come questi valgono molto le parole del presidente Sergio Mattarella: “se il perdono esiste e concerne la singola persona offesa, non può essere inteso come un colpo di spugna sul passato”.

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