Giovedì 21 novembre 2019, nell’auditorium de La Nazione di Firenze, si è tenuta la presentazione del libro Il pesce elettrico dello scrittore e giornalista piemontese Enrico Fovanna. Un insieme di amori, passioni, viaggi, avventura, guerra, giallo e attualità, ma che riesce anche a far riflettere il lettore su quei popoli che non hanno la certezza di sapere se il luogo in cui oggi vivono la loro quotidianità sarà lo stesso di domani.
Si tratta di un libro scritto nel 1996 che parla del popolo curdo e ora riproposto. Se dopo più di vent’anni questo argomento è ancora di attualità, ciò testimonia quanto la situazione in quei luoghi non sia cambiata.
L’autore, da giornalista, è stato personalmente in quei luoghi potendo provare sulla propria pelle le difficoltà e la paura di vivere in territori di guerra. Prima di passare alla spiegazione del romanzo, Enrico Fovanna racconta la storia del popolo curdo dalla nascita della regione del Kurdistan ad oggi.
Il romanzo narra le avventure di tre giornalisti che si recano in Turchia per recuperare un loro collega arrestato e portato in un manicomio psichiatrico dai turchi cinque anni prima.
Risulta interessante anche la spiegazione del titolo del libro: all’inizio del romanzo uno dei protagonisti riceve in regalo da un albergatore curdo un pesciolino a pile, che sarà poi il testimone che passerà di mano ai diversi personaggi.
Fovanna continua poi descrivendo la sua esperienza non solo come un uomo che, con gli occhi del romanziere colora e sfuma la realtà, ma come un attento analizzatore, cronista e giornalista.
La vita e la stessa professione del giornalista erano molto diverse. Tutto ciò che noi oggi cerchiamo sul web, su Internet, digitando semplici parole, fino a 20 anni fa era frutto di una ricerca difficile, fatta spesso con l’aiuto degli archivisti. Ricerca che a volte richiedeva una documentazione diretta, l’andare sul posto, come nella storia narrata nel libro. L’autore è tornato spesso in Turchia per documentarsi riguardo alla questione curda e in occasione del Capodanno curdo, festa proibita secondo la Turchia, che si svolge il 21 marzo. Simbolo del popolo senza Stato sono anche le donne, le donne guerriere, le guerriere curde fin troppo stereotipate dall’Occidente e fin troppo contrapposte alle donne islamiche interamente coperte dal velo. La contrapposizione sociale vi è, soprattutto sul piano dell’essere una donna libera, protagonista e non oppressa dalla sharia.
L’immagine della donna curda, della combattente, della comandante fa paura a chi promuove e segue senza scrupoli la sacra legge islamica. Fanno paura il cambiamento, l’indipendenza, l’autonomia, simboli cardine dell’emancipazione per noi fin troppo scontata. Riallacciandosi al romanzo l’autore mostra il suo pensiero sulla circolarità del tempo dell’amore e della giustizia. Le ingiustizie hanno quasi sempre un cerchio che le chiude positivamente e la trama del libro lo teorizza.
L’importante è che i sentimenti e le loro complessità siano veri. Quando c’è il vero dietro ai sentimenti anche la più grande difficoltà si dipana. Affermazioni che rimangono attuali e concrete dopo 23 anni dall’uscita del libro, grazie al collante che sempre chiude tutti cerchi: la speranza.
Speranza che permette ciclicamente ai curdi di realizzare i propri sogni e che ciclicamente si presenta come punto di luce. Speranza e fiducia nella propria identità, nelle proprie capacità: è quello che alla fine ci salva.