“Non c’è nemmeno da chiedere se a Manu Lalli piaccia il suo lavoro. Ne è semplicemente e nella maniera più pura innamorata. Si trova nel mondo dello spettacolo da quando ha 6 anni, e tutt’oggi ha i brividi quando il sipario si apre. “L’opera lirica è la rappresentazione dell’arte totale: vi troviamo scultura, scenografia, pittura, danza, musica… Il teatro è magia.”
Con gli occhi vivi di entusiasmo parla del suo mestiere come fosse un privilegio inimmaginabile. “Io lo ripeto costantemente ai miei colleghi: lavoriamo in un posto bello, raffinato; il nostro obiettivo è creare delle emozioni negli altri e se vi riusciamo il pubblico ci batte le mani. Cosa desideriamo di più?”
Quali sono i passi della sua carriera? Qual è stata la sua formazione? Com’è nato tutto?
“Ho avuto il privilegio di nascere negli anni 70, quando si credeva di cambiare il mondo con la fantasia.
Abitavo a Fiesole. I ragazzi dell’università iniziarono a promuovere delle attività culturali in tutti i comuni limitrofi a Firenze, andando nelle scuole a raccontare cosa fosse il teatro. Avevo circa 6 anni e non ne sapevo niente. Portarono me ed altri bambini a dei corsi universitari di Pio Baldelli; qui ebbi l’opportunità di conoscere personaggi folli come Dario Fo. Con questi soggetti estrosi io partecipavo alle manifestazioni vestita da pagliaccio, facevo teatro di strada e rimanevo fuori fino alle 2 di notte. Mi appassionai così tanto al mondo dello spettacolo da sentire il bisogno di divulgarlo a più persone possibile. Nelle mie prime rappresentazioni infatti coinvolgevo tutti: trascinavo sul palcoscenico cittadini di Fiesole, che probabilmente non avevano mai recitato, mettendo in scena centinaia di persone contemporaneamente; il numero non era mai un limite ma un arricchimento. Il mio era un teatro sociale.
Uno dei ragazzi universitari era Alfredo Puccianti, primo animatore culturale in pianta organica, nonchè mio futuro maestro. Mi insegnò tantissimo. Alfredo Morì quando avevo poco più di 30 anni e per ricordarlo misi in scena uno spettacolo sulla vita di Molière con molte delle persone che aveva conosciuto in vita. Fu una cosa bellissima.
A 26 anni fondai Venti Lucenti, una compagnia di teatro e animazione culturale che lavorarava nelle scuole e nei Comuni dell’area metropolitana Oggi il progetto VENTI LUCENTI è entrato su tutto il territorio nazionale e ha assorbito come operatori moltissimi ex alunni, che ora sono professionisti. Nel ’95 ho cominciato a lavorare con L’istituto Elsa Morante ad un progetto di integrazione fra adolescenti disabili e non. ALTRIMONDI è stata una delle esperienze più belle della mia vita: con questo progetto abbiamo realizzato moltissime rappresentazioni e vinto premi Europei e nazionali. Siamo stati chiamati dall’UNESCO a rappresentare l’Italia nel progetto europeo di divulgazione della pace attraverso il teatro. Io pretendevo tanto da quei ragazzi, ma i risultati erano incredibili: talvolta il pubblico non capiva neppure che erano dei disabili.
Successivamente Venti Lucenti inaugurò anche l’apertura di un laboratorio STU (stazione di teatro urbano) aperto a persone dai 18 ai 100 anni, con cui realizzammo performance di strada e nelle piazze per valorizzare gli spazi urbani.
Inoltre grazie al progetto di integrazione culturale nato con il liceo Gobetti di Bagno a Ripoli. Venti Lucenti ha realizzato spettacoli che hanno portato gli attori in Armenia, a Sarajevo, a Cuba, e in molti altri paesi dell’est Europeo . Si trattava di un progetto bilaterale che vedeva la collaborazione fra i ragazzi italiani e quelli dell’altro paese.”
Preferisce lavorare con i bambini o con gli adulti?
“Sono due piani completamente diversi. Con i bambini hai l’idea di lavorare sul loro futuro. Io perseguo una politica culturale: io vorrei che tutte le nuove generazioni avessero la possibilità di incontrare questo mondo spettacolare che è quello dell’opera, vorrei avere la possibilità di regalarglielo. Poi i gusti sono gusti, la cosa potrebbe benissimo non piacere; ma almeno diamogliela l’occasione. Se la famiglia non fosse interessata al mondo del teatro, come potrebbe il figlio conoscere questa realtà? Io vorrei contagiare i bambini che incontro con l’amore per il teatro, perché a mio modo di vedere fa bene, perché insegna: con queste esperienze imparano il silenzio, l’attenzione degli altri, l’appropriazione di senso civico. L’opera è democratica: se fai bene, fai bene per tutti, se fai male fai male per tutti.
Con gli adulti questo è più complesso, hanno un sistema diverso di riferimento , scopi diversi e una vanità, data anche dal loro professionismo, più strutturata. Possono essere, diversamente dai bambini, sublimi o crudeli!
Questo progetto è la summa di quello che io ho sempre sognato di fare nella mia vita: utilizzare il teatro come strumento di crescita collettiva della comunità ecome strumento di pace. I bambini apprendono come stare insieme: nel coro se uno canta male, tutto il gruppo ne risente; pertanto deve collaborare affinché l’insieme riesca bene. I bambini sono emozionati, gli sembra tutto nuovo e difficile: mentre il rischio con gli artisti adulti è che diventi per loro una cosa di routine, una cosa piu semplice quindi meno sentita.
A me non interessa SOLO che il pubblico esca DAL TEATRO pensando di aver visto un bell’allestimento, o ascoltato una bella voce … o meglio va benissimo che consideri quegli aspetti come fondamentali ma ancora prima spero che il pubblico si appassioni alla storia , ne diventi partecipe, e si chieda “come va a finire? Muore? Si sposano?” La vicenda nel teatro operistico segue degli schemi abbastanza “ripetitivi” (o c’è la morte di uno o più protagonisti o più raramente il “vissero felici e contenti”) ma quello che cambia è appunto il modo di raccontare quella storia, che per quanto più o meno nota deve comunque apparire sempre nuova. Qualche volta i professionisti del teatro si dimenticano della complessità del disegno culturale che vi è dietro alla storia. I bambini, mai. Il pubblico si deve emozionare. Noi dobbiamo raccontare.L’opera è uno spettacolo popolare, collettivo che dovrebbe essere espressione appunto dellacollettività. Gli spettatori dovrebbero percepire i loro sentimenti rappresentati, esposti: ciò che nella vita quotidiana si nasconde, si cela, in teatro emerge, viene messo in piena luce. La cosa fondamentale è non perdere l’entusiasmo, perché altrimenti non si può più fare questo lavoro.”
Due anni fa fece Cenerentola di Rossini a Pitti. Vi saranno delle differenze con quella qui al Maggio Fiorentino?
“L’idea è la stessa. Ciò che cambia è principalmente la scenografia. Tutta l’opera sarà accompagnata dai libri: io ho immaginato che la mamma di Cenerentola avesse la casa ricca di libri e che avesse insegnato alla figlia, sin da piccola, a leggere. Lo spettacolo inizierà con Cenerentola concentrata su di un libro, il quale la illuminerà. Quella luce rappresenterà la saggezza.
Lo stesso bagliore lo vedremo quando ci sarà l’incontro fra lei e il principe, il cui sguardo la sveglierà alla vita. Cenerentola si guarderà allo specchio con degli occhi diversi e si vedrà finalmente donna. Per questo il suo vestito da favola per il ballo non sarà bianco, bensì nero: il colore della seduzione.
La scenografia di ambientazione settecentesca, realizzata su carri che ruotano aprendo e chiudendo le varie situazioni della storia è a cura di Roberta Lazzeri. Particolare sarà l’ultimo concertato, nel quale ci saranno 6 personaggi che canteranno contemporaneamente a rappresentare la complessità delle relazioni (il cosiddetto nodo avviluppato): la scena, verso la fine di quest’ultimo, verrà portata tutta fuori, non ci sarà più niente sul palco. Ciò mostrerà come la chiusura che Cenerentola ha avuto per tutta la sua vita verso i propri desideri si sia disintegrata, grazie al perdono e alla sua bontà.
Ci sarà un fondale favoloso, dipinto da Daniele Leone, che imiterà la sala principale della Venaria di Torino.
Cosa ne pensa delle regie che vanno contro lo spirito di un’opera? È giusto che oggi si faccia spettacolo in modo diverso rispetto anni fa, ma talvolta sembra che si voglia rompere con l’originale.
Ogni artista interpreta l’opera in maniera personale È comunque difficile mantenere il messaggio originale della storia, sia negli allestimenti classici che in quelli “moderni” poiché il mondo è cambiato e le regie si devono comunque adattare al nuovo pubblico, che, con più competenze , chiede sempre di più Talvolta i forti cambiamenti sono dirompenti, innovativi, eccezionali, fatti da grandi registi, con grandi idee, altre volte rischiano di essere incomprensibili.
Il problema a volte è che si dà per scontato che il pubblico sappia già di cosa si stia parlando. Lavorando con i bambini io faccio di tutto perché gli spettatori capiscano e questo mi stimola a cercare di essere più chiara possibile! Speriamo di riuscirci! Il rischio dell’incomprensione è molto elevato, soprattutto quando si adottano dei simboli non condivisi per temi importanti (come la morte, la passione).
Il teatro è un rito che si compie in maniera collettiva quando il pubblico e il palcoscenico sono insieme. Chi guarda è parte integrante della rappresentazione, pertanto lo si deve coinvolgere, deve comprendere.”
Recita ancora o ormai si è dedicata interamente alla carriera di regista?
“Io ho recitato solo dai 6 ai 13 anni, poi ho deciso per un’altra strada che mi permetteva di stare “fuori” dalla scena non indossando i “panni “di nessuno … ma quelli di tutti. Era meno pericoloso, meno esposto.
Da regista devo cercare di conoscere a fondo il lavoro ogni singolo professionista che in teatro collabora alla realizzazione dello spettacolo . Se si chiede, si deve conoscere la materia di cui si parla e non smettere mai di studiare ogni singolo dettaglio
Pertanto mi sforzo di capire di sartoria, di scenografia, di macchineria teatrale di luci, di musica. Conosco a memoria le battute di tutti i miei spettacoli, e alle prove recito i miei personaggi per far capire ai cantanti o agli attori come vorrei che quei personaggi vivessero sulla scena, ma avrei difficoltà a mostrarmi sul palco. Forse me ne manca la vanità.”