Peggio del parlare troppo c’è solo il non parlare abbastanza. Alla fine degli anni ’40, quando il mondo ansimante inizia a leccarsi le ferite, si attesta intorno a 12 mila (20 mila, secondo le stime meno rosee) il numero degli infoibati. Tra i quattro e i cinquemila sono italiani.
Difficile confermare i dati. Le salme riesumate, tutto sommato, sono poche: alcune centinaia contro diverse migliaia di scomparsi. Qualcuno è stato ritrovato anni dopo dall’altra parte del mondo, spesso e volentieri gli Stati Uniti, con nuovo nome, nuova identità e, ce lo si augura, anche nuovi ricordi. In New York you can be a new man, dopotutto.
A Basovizza, dove si apre quel pozzo di lignite che è diventato, per certi versi, il simbolo inquietante del massacro, ci hanno messo (letteralmente) una pietra sopra – forse anche per evitare che qualcuno andasse a scavare tra i detriti alla ricerca dei propri cari.
Sta di fatto che, a parte qualche menzione nella zona di Trieste e poco più in là, il governo italiano dell’epoca tace sull’accaduto. Se lo scopo di gettare qualcuno in un buco nella roccia è cancellarne la memoria, sembra quasi che il colpo sia riuscito.
C’è chi punta il dito sul PCI, che dopo qualche flirt con Tito avrebbe insabbiato la faccenda per non dare spunti alla propaganda di destra; chi scarica la colpa su De Gasperi e il governo antifascista, i quali all’uscita malconcia dell’Italia dalla Seconda Guerra Mondiale si sarebbero ben guardati dal toccare quel nervo scoperto. Qualcuno arriva addirittura a scomodare Churchill, che nell’infuriare della Guerra Fredda avrebbe opportunisticamente deciso di “tenere a galla” Tito, dopo la rottura di questi con la Russia di Stalin.
Non c’è neanche unanimità sul perché esseri umani abbiano deciso, quasi senza previa dichiarazione, di iniziare a tappare buchi nel terreno con i corpi di altri esseri umani. È vero che gli slavi avevano conosciuto il fascismo. C’è chi parla di una reazione spontanea, anche se esagerata, ai soprusi subìti, e potrebbe non avere tutti i torti, almeno per quanto riguarda le prime ondate: i cadaveri di cani neri ritrovati in certe foibe, che secondo il folklore locale avrebbero dovuto impedire agli spiriti degli ammazzati di andare in cerca di vendetta, rimandano sicuramente a uno spasmo di violenza partito dal basso. Ma considerando gli sviluppi, è difficile credere che in basso sia rimasto. Non troppo più tardi, infatti, la repressione allarga le proprie basi da coloro che potevano anche solo lontanamente essere tacciati di filo-fascismo a chiunque venga considerato un ostacolo all’espansione comunista. I fucili dei contadini non hanno mirini tanto precisi.
Qualcuno liquida l’accaduto come la normale punizione, agghiacciante ma tutto sommato prevedibile, per quelli che alla fine, almeno dal punto di vista dei partigiani titini, erano criminali di guerra. All’estremo opposto i sostenitori della tesi del “genocidio nazionale”, secondo cui gli slavi avrebbero scatenato i loro “istinti bestiali” a danno degli italiani in quanto italiani. Anche questo poco credibile, se solo ci si ricorda che in quei buchi sono finiti, fianco a fianco con gli italiani, altri slavi – solo, slavi del tipo sbagliato.
Più convincente l’interpretazione che tiene conto del sostrato ideologico di tutta la faccenda. Le rivoluzioni, condivisibili o meno, vanno sempre a braccetto con la violenza. Il fine dei partigiani di Tito, negli anni ’40, è esportare il comunismo verso ovest, a costo di eliminare chiunque non condivida la loro posizione (senza fare granché caso all’etnia).
Quasi da un giorno all’altro, per tutti quegli italiani residenti nelle zone sotto il controllo jugoslavo (si parla di Zara, Fiume, le isole del Quarnaro e la penisola istriana) l’immagine del bonario contadino slavo viene sostituita da quella di una minaccia a cui sottrarsi: ha inizio quella migrazione che gli interessati definiscono, con riferimento biblico, esodo, e a cui gli storici aggiungono, poi, lungo. 250 mila italiani, i giuliano-dalmati: a prima vista, un numero quasi irrisorio, se si pensa alle cifre degli altri movimenti di popoli durante e dopo il secondo conflitto mondiale: uno per tutti quello di quei dodici milioni di tedeschi espulsi dai territori occupati dagli Alleati. Grande abbastanza, però, da lasciarsi dietro una schiera di città fantasma semi-deserte, solo occasionalmente rabberciate alla meno peggio, per colmare il vuoto demografico e sociale, con persone inviate laggiù da tutti gli angoli della Iugoslavia e oltre.
Grande abbastanza da riempire di masserizie di un altro secolo il Magazzino 18 di Trieste, simbolo stesso dell’esodo: teca e bara di ricordi spaiati ancora in attesa di un proprietario che possa ridare loro un contesto.
A oltre sessant’anni dall’accaduto, trovare una causa certa (se pure ne esiste una) ha dell’utopistico, anche se a chi ha perso la famiglia, la patria, o entrambe le cose, un perché farebbe di sicuro piacere. È difficile convivere con qualcosa a cui non si può dare un’identità.
Non resta che ricordare e piangere i morti: i propri e quelli degli altri, che sono vittime dello stesso carnefice dalle fattezze mutevoli, e smetterla di spalarsi addosso manciate di odio dalle rispettive fosse.