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QUANDO SI APRIRONO I CANCELLI DI AUSCHWITZ. Quello che c’è da fare è rimanere in silenzio e sedersi ad ascoltare.

Data 27 gennaio del ’45. Guerra mondiale agli sgoccioli, finalmente. Le truppe sovietiche dell’Armata Rossa, agli ordini del maresciallo Koniev, entrano ad Auschwitz. Il mondo ascolta per la prima volta i retroscena agghiaccianti del genocidio nazista da quei 7.000 prigionieri che le SS si erano lasciate dietro nella loro fuga verso ovest. La macchina immonda dell’Olocausto inizia a perdere pezzi. Finalmente.

Tutti dati che, in linea generale, il pubblico italiano ha sentito perlomeno nominare: al massimo, è lecito incespicare sul colore dell’armata. Li ha sentiti nominare anche perché in Italia, da diciotto anni a questa parte (con la bellezza di un lustro di anticipo sul resto dell’Unione Europea), allo scoccare del mezzogiorno in molte scuole e alcuni uffici ci si alza in piedi per un minuto di silenzio. I più in genuino raccoglimento, qualcuno sforzandosi di soffocare uno sghignazzo nervoso e di pessimo gusto nella quiete improvvisa, qualcun altro costretto a risintonizzarsi bruscamente col calendario, fare mente locale e spendere il poco tempo che gli resta a considerare l’imbarazzante paradosso di aver dimenticato il Giorno della Memoria. Poi però il minuto finisce, e nel rumore di fondo che si reinstaura ognuno torna a occupare il proprio posto nel terzo millennio.

Su Internet, qualcuno potrebbe menzionare quella proporzione drammatica per cui, se si volessero dedicare sessanta secondi a ciascuna vittima della Shoah, si dovrebbe fare silenzio per undici anni.

Ma di fronte a tragedie del genere siamo tutti funamboli in bilico su quello spago che pende tra il sincero accoramento e la consunta ripetizione di frasi di circostanza.

Si scandagliano i dizionari, si interpella la rete, alla ricerca paranoica di quell’unica parola, di quella formula che condensi tutta la costernazione di essere nati troppo tardi per poter fare qualcosa, e di non riuscire comunque a ignorare la cicatrice paonazza di questa ustione della storia. Ma o non la si trova, o qualcun altro (un milione di qualcun altro) l’ha già utilizzata per esprimere la propria costernazione.

Allora forse è meglio prendersi qualche altro minuto di silenzio.

Ci sono persone che l’Olocausto lo hanno sentito nella carne, e sono vittime perché hanno dovuto viverlo e sopravvivergli, e sono eroi perché oggi hanno il fegato e i nervi di raccontarlo e raccontarlo ancora, e se è vero che la parola ha un suo potere terapeutico, è anche vero che non ci si confronta con ricordi di quel genere senza fare appello a una forza d’animo di prima categoria.

Ma parlano piano, con le loro voci sottili di anziani, e la placidità sfinita di chi alla fine di una giornata d’inferno è contento perlomeno di ritrovare il letto fresco e rifatto. E non hanno bisogno di dizionari per evocare la squallida crudeltà di quel male fetente e delle sue propaggini, dell’orrore contro cui la mente allucinata cozza. Per esprimere la desolazione immane di essersi visti rubare l’infanzia da un’ideologia velenosa, e l’immane sollievo di essere ancora vivi per continuare a denunciarla.

E quello che c’è da fare è rimanere in silenzio e sedersi ad ascoltare.

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