La fine del mondo è già qui. E’ questo il messaggio che vogliono lasciarci gli artisti della mostra intitolata, appunto, “La Fine del Mondo” (allestita da ottobre 2016 a marzo 2017 presso il museo Pecci di Prato) cercando di trasformare un evento così catastrofico in opere d’arte dal profondo significato simbolico.
L’apocalisse è quindi presentata non come un disastro naturale, ma come la necessaria conseguenza delle sconsiderate azioni dell’uomo ai danni della natura.
L’impronta che noi lasciamo sulla terra è presentata sotto vari punti di vista; partendo dalle ricostruzioni paleontologiche degli australopitechi, simbolo del nostro vivere biologico, fino alle installazioni Break-Through di Thomas Hirschhorn, simbolo della nostra precaria ed invadente presenza sulla Terra. L’artista svizzero nelle sue opere d’arte ‘smonta’ le infrastrutture del museo stesso per mostrare l’apparente solidità della nostra società, facendoci riflettere come dal caos possa nascere un nuovo ordine.
Il museo stesso (recentemente ristrutturato dall’architetto Maurice Nio) diventa parte della mostra trasformandosi a seconda delle esigenze, infatti la forma circolare di quest’ultimo rende evidenti le sottili connessioni fra le varie opere e ci permette di compiere un percorso simbolico attraverso le Ere dell’uomo. Questo tema è ulteriormente analizzato da Enrique Oliveira, che nella sua installazione Transcorredor ci rende un tutt’uno con l’arte, mostrando il susseguirsi delle tecniche di costruzione, dalle più recenti fino a quelle più antiche; e al termine di questo viaggio, troviamo il rifugio più antico di tutti, l’albero, simbolo di vita e protezione.
Ma l’aspetto più terrificante presentato nelle opere d’arte riguarda la nostra vita sociale: nonostante l’uomo sia “politikòn zôon” troppo spesso smette di pensare come singolo e diventa solo una macchia nella massa. E’ questo il chiaro messaggio che percepiamo osservando lo smarrimento del branco di lupi nella spettacolare istallazione Head On di Cai Guo-Qiang, presentati nell’atto disperato di saltare, o meglio, di schiantarsi nel vuoto.
L’altra faccia dell’ambito sociale è rappresentata dalla morte intellettuale presentata da Taddeusz Kantor sotto forma di denuncia del sistema scolastico nella inquietante Classe morta, allegoria del pensiero che imprigiona e impedisce ogni forma di espressione.
Per cogliere il significato della mostra nel suo complesso bisogna però usare tutti e cinque i sensi e non limitarsi a osservare: sono gli artisti stessi che spesso vogliono suscitare in noi sensazioni forti, al limite del disgusto, invitandoci quasi a distogliere lo sguardo per osservare le cose non come appaiono ma per ciò che realmente sono. E’ questo l’effetto che Thomas Hirschhorn provoca nella nostra mente quando, nei suoi Collage-Truth, associa le vacue immagini del mondo della moda a raccapriccianti reportage sui massacri di guerra. La critica che Hirschhorn vuole muovere va direttamente alle società moderne, dove tutte le notizie hanno lo stesso peso: dall’efferato crimine di guerra alle effimere sfilate di moda.
Ma in una mostra così eclettica trova spazio anche l’arte concettuale di Lucio Fontana o la celeberrima scultura Forme uniche nella continuità dello spazio di Umberto Boccioni.
Il primo, col suo Concetto spaziale del 1960, rappresenta nel gesto drammatico e liberatorio di tagliare la tela, la necessità di oltrepassare lo spazio, le barriere e i limiti cercando di guardare oltre la nostra esistenza. Boccioni invece ci introduce al dinamismo, inteso come forza che genera movimento: un uomo che corre, una bestia che lavora, ma anche una macchina in moto o un’arma in azione (da qui il mirino al posto del ‘naso’ dell’ambigua figura, emblema della poetica futurista).
Una mostra del genere, con le sue implicazioni rese evidenti già dal titolo stesso, poteva concludersi solo ripartendo dall’inizio, ovvero presentandoci di nuovo la ricostruzione degli australopitechi con cui l’esposizione si apre, per ricordarci che tutto torna e che le ferite che lasceremo in questo mondo sono destinate a rimanere per sempre.
Francesca Calbi e Tiziano Cassioli, Classe 5D