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BOHEME: Il finale infelice che fa innamorare l’Opera di Firenze

La quarta replica di Bohème di Puccini, la sera del 23 novembre, riscalda ma non riesce a riempire il teatro: le poltrone vuote sorprendono, sì, ma solo fino a un certo punto, se si pensa che si tratta di una replica infrasettimanale – e quindi in gran parte preclusa al pubblico studentesco. Nonostante l’affluenza non eccezionale, è il caso di dirlo: pochi ma buoni. O meglio, quelli buoni sono stati gli artisti, a conquistarsi cascate di applausi tutte meritate.

L’opera, due ore e mezzo colorate di dolcezza e tragedia, non ha conquistato solo gli habitué, ma si è dimostrata abbordabile anche dai giovanissimi.

Bravo il direttore, Daniel Oren (che d’altra parte vanta alle spalle una lunga carriera, in cui Bohème figura tra i suoi assi nella manica), a destreggiarsi tra i climax frequenti e i subitanei cambi di tono: dalla scomposta vivacità del primo atto all’oscurità incipiente del secondo. Ovviamente, i complimenti vanno anche all’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, alle sue direttive.
Ottima anche la prestazione dei cori, compreso quello delle voci bianche, che ha fatto sabato 19, con la prima, il suo debutto sul palcoscenico.

Grazie anche alla collaborazione con gli interpreti, hanno saputo rendere in maniera più che convincente l’intreccio pucciniano tra amore e morte.

Passando agli interpreti, notevole il Rodolfo di Fabio Sartori (tenore), che ha dimostrato una potenza fuori dal comune in tutti gli stadi della sua esibizione. La Mimì di Jessica Nuccio (soprano) regge il confronto, rispondendo alle energiche declamazioni di Rodolfo con una dolcezza spumeggiante, solida anche negli acuti. Tant’è vero che entrambi si sono guadagnati un’ovazione finale.

Funzionano anche i bisticci della coppia Marcello-Musetta, interpretata da Simone Piazzola e Laura Tatulescu – lui a tratti sognante, lei squisitamente maliziosa.

Chiamarla “coppia” sarebbe senza dubbio eccessivo, ma non si può negare il sentimento nell’addio del Colline di Gianluca Buratto alla sua Vecchia Zimarra.

Ottima la presenza scenica di tutti gli interpreti, egualmente abili nel gestirsi il palcoscenico quasi vuoto e nel farsi riconoscere nella cangianti scene corali.

Singolare la scelta della scenografia: una struttura nuda da cantiere onnipresente e multifunzionale, che funziona piuttosto bene nel secondo quadro, ma può lasciare perplessi negli altri tre. C’è da dire, però, che se l’esecuzione si mantiene (come si spera) a questo livello, lo spettatore medio non potrà farci troppo caso. Azzeccati invece i costumi di William Orlandi, sempre intonati allo spirito dell’opera.

Un altro grande spettacolo all’alba di una stagione che finora sembra più che promettente, e che ci auguriamo continui a stupirci.

 

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